I “fiocchi di neve” fatti veleggiare nell’aria nei mesi passati, a mo’ di anteprima, avevano già parlato chiaro: Linda Feki stava per sganciare un disco della madonna. Però ecco, in tempi in cui basta un singolo per far parlare di sé e avere una consistenza (o far credere di averla) eravamo rimasti un po’ in attesa. Siamo vecchia scuola, forse, ma volevamo sentire l’album. Volevamo sentire l’intero album. Ancora oggi, per quanto ci riguarda, lo spessore di un progetto artistico si misura infatti con gli album, in musica: quando cioè provi a raccontare una storia più lunga e sfaccettata, quando rischi magari di annoiare e non solo sedurre chi si è avvicinato a te con un minimo di curiosità, quando ti esponi alla trappola di sparare le tracce migliori in pochi episodi e poi sul resto vai di riempitivo, di mestiere, di scarto di lavorazione.
Bene: “Kuni” di LNDFK è, semplicemente, un disco bellissimo. Proprio bello bello. Altro che deludere, la Feki: avevamo fatto bene ad aspettare, perché ascoltando questo lavoro la sua figura ai nostri occhi cresce ancora di valore, e cresce tanto. Quello che ha fatto, come d’abitudine con l’aiuto di quel calibratissimo talento totale che è Dario Bass, è alto, altissimo livello.
Le traiettorie sono quelle ormai consolidate: soul-jazz etereo e “sporcato” di striature urban. Un filone bello, che piace, che è piacevole, e che spesso sotto la sua “bellezza” sofisticato-piaciona maschera idee non sempre rifinite e non sempre coraggiose. Con “Kuni” non è per nulla così. Oltre ad accordi soffici e cambi armonici come piovesse, come appunto da ricettario standard del genere che qualche volta è un po’ cortina fumogena, c’è in realtà tanta, tanta qualità vera. C’è una scrittura incisiva, che sa dove vuole andare e sa come giocare con le dinamiche, con le strutture, con le melodie; e ci sono anche idee che vanno al di là della musica, coi vari richiami all’oriente che danno davvero personalità e valore aggiunto all’intero lavoro, non sono insomma delle “carinerie” messe lì così tanto per arredare il soprammobile, per nulla. Ecco, intanto ascoltate voi stessi:
“Takeshi” è una delle cose più belle che ci sia capitato di sentire da un bel po’ di tempo a questa parte. “Don’t Know I’m Dead Or Not” è incredibilmente preziosa perché non solo è scritta bene di suo nelle sue parti portanti, ha anche il coraggio di perdersi, confondersi, per poi riprendersi, con una scelta strutturale che scardina le cartezze strofa-strofa-ritornello e non si fa problemi a creare un momento di stasi, di indecisione e vertigine a metà brano, contro ogni regola della radiofonia e dell’ascolto da streaming. “Ktm” riporta ai momenti migliori della ditta Yussef Kamaal, e nel farlo invita al ballo quel drago di Jason Lindner (uno che suonava con Bowie in “Blackstar” e che è colonna portante della favolosa navicella jazz guidata di Donny McCaslin).
Una piccola, grande delizia – praticamente un eastern egg – è stato riportarci ai fasti di Chill Out Zone, chiamando Asa Chang a mettere il suo classico tocco voce+percussioni nella reprise di “Hana-Bi”, ma anche il contributo di Pink Siifu nella bella “How Do We Know We’re Alive” è più che appropriato. E niente, le abbiamo citate quasi tutte: la traccia che a pelle ci piace di meno, “Smoke – A Man Or A Button”, l’unica che non mette in campo vene di inquietudine e malinconia ad insaporire tutta l’eleganza nu soul, comunque è roba di livello, ed ha una parte finale che porta a casa tutto e tutti. Ah, nota a margine: menzione d’onore per il drumming di Stefano Costanzo ovunque intervenga, davvero magistrale.
Critiche? Forse una. La trama sonora è del disco è, per certi versi, un po’ esile. Un po’ troppo esile. Una scelta di sicuro voluta, una scelta forse perfino necessaria per valorizzare al meglio il timbro e il piglio sottile (ma affascinante, ed appropriatissimo) di Linda; ma resta il dubbio di capire se, facendo una cura rinvigorente di frequenze, si sarebbe potuti arrivare ad un disco ancora più grosso e potente, a qualcosa che arriva sui mercati internazionali e spazza via quasi tutto, mettendosi nelle zone alte. Già così comunque l’appeal è internazionale al 100% (il disco esce per Bastard Jazz, con l’appoggio italico della sempre più meritoria La Tempesta); già così possiamo tranquillamente dire che no, gli Hiatus Kaiyote non ci devono più sembrare lontani anni luce: c’è un progetto, in Italia, che naviga alle stesse altezze di qualità. Lì dove perde qualcosa (suono, impatto, compettezza), guadagna però in personalità di scrittura. Hai detto nulla.
Album bellissimo. Album di cui andare orgogliosi. Ci scusasse Sanremo e tutto il resto, ma probabilmente è il primo disco davvero importante di casa nostra del 2022, perché setta in alto uno standard che prima non c’era, o non arrivava a tanto.
Foto di Mattia Giordano