Abbiamo avuto la possibilità di scambiare quattro chiacchiere con Nicolas Jaar e Dave Harrington prima del loro concerto milanese come Darkside, e bisogna ammettere che siamo rimasti estremamente stupiti, in maniera positiva, da tutto ciò che ci siamo detti: entrando in contatto con l’universo di Nico e Dave, infatti, abbiamo scoperto esserci molto di più di quello che avevamo colto inizialmente nella loro musica. Ma non basta: quello che segue è anche il resoconto di una chiacchierata con due persone in grado di essere al tempo stesso molto profonde ma anche molto divertenti, il che rispecchia appieno anche quello che ci hanno raccontato della propria musica, perfettamente in grado di adattarsi sia all’ascolto “meditativo” che a quello più festaiolo.
Il claim di Soundwall è “electronic music and beyond”, e credo di poter tranquillamente dire che voi fate parte di quel “beyond”, visto che avete dichiarato che “Psychic”, il vostro album, è influenzato dal rock’n’roll e dal blues; qual è quindi il vostro rapporto con la musica elettronica ed il clubbing, e come bilanciate queste due diverse influenze?
Nico: In un certo senso il mio incontro con la musica da club è stato casuale, ma mi piace un sacco fare il dj e suonare nei club; in realtà però, quando si tratta di produrre, preferisco non pensare ad un dancefloor, ma alla mente di chi ascolta; la cosa più importante per me quando produco è che la musica venga fuori più naturalmente possibile, quasi come se uscisse dal mio subconscio, come rappresentazione dei pensieri. In questo senso, la musica diventa rappresentazione di questo o quel preciso momento, e diventa qualcosa di radicato con quello che pensavi in quel momento, ed è qualcosa di completamente diverso da dire, ad esempio, “voglio fare una traccia che i dj suonino”. Capisci? Ma mi piace comunque suonare musica di questo tipo, penso ci sia qualcosa di ottimo anche lì; credo soltanto che la musica che produco non sia così utilitaristica.
Chiaro. Parlando del contesto in cui si ascolta la vostra musica: immagino quindi che non abbiate avuto in mente un contesto specifico quando avete scritto le canzoni, come ad esempio “voglio scrivere una canzone che suoni bene quando ci si trova in questa situazione”.
Nico: No, perchè non è una cosa che puoi controllare.
Infatti. E una cosa che credo sia interessante del vostro live è che avete suonato in posti molto diversi tra loro: dai club, come quello di questo concerto, ai teatri, passando anche per i musei. Quale credete che sia, quindi, il tipo di location migliore per il vostro live?
Nico: Per me è questione di come lo spazio in cui ti trovi trasforma la tua musica: per esempio, stasera suoniamo in un club, che significa che possiamo spingere un po’ di più sull’impianto, che il basso sarà più importante che in un museo; se io e Dave suonassimo in un museo probabilmente non vorremmo far ballare la gente, ma vorremmo fare qualcos’altro; la cosa più importante, quindi, è che il live parte dallo spazio, non da me o da noi.
Dave: Penso che quello che vuol dire Nico sia che il punto di partenza è sempre l’improvvisazione, l’essere aperti alla possibilità di cambiare lo show; quasi ogni volta che suoniamo insieme da qualche parte, la prima cosa che facciamo è entrare nella sala e dire “ok, vediamo cosa c’è, vediamo come possiamo fare con questa stanza”.
Nico: Credo che essere un musicista in tour sia come essere un po’ medico e un po’ mago: la prima cosa che fai quando entri in una location è fare un checkup.
Dave: Una diagnosi del posto, un’esplorazione scientifica.
Nico: Fai una diagnosi, e poi vai sul palco e diventi un mago, mostri al pubblico un cilindro ed estrai un coniglio. Ma è una cosa che puoi fare solo dopo che hai fatto una diagnosi del posto. Devi prima fargli togliere i vestiti e controllare loro le palle, poi puoi mostrare loro il coniglio.
Dave: Solo poi gli mostri il coniglio. Woooow. (ride un sacco)
Fantastico. Che conigli mostrerete stasera, quindi?
Dave: Non abbiamo ancora completato la diagnosi; non abbiamo ancora fatto il soundcheck, siamo appena arrivati.
Nico: Una delle diagnosi che possiamo dire di avere già fatto, però, è che ci siamo sempre divertiti molto a suonare a Milano.
Quindi avete già un’idea di cosa aspettarvi dalla gente.
Nico: Sì, la gente è sempre stata fantastica qui, per cui in un certo senso non vediamo l’ora di far togliere i vestiti alla gente per la diagnosi.
E credo che la gente stasera non veda l’ora di strapparsi i vestiti di dosso. Cambiando argomento, parliamo della vostra collaborazione: so che vi siete conosciuti all’università, giusto?
Dave: Ci siamo conosciuti tramite Will Epstein, che farà l’apertura stasera come High Water.
E poi avete suonato insieme nel tour di “Space Is Only Noise”. Ma com’è stato che avete deciso di passare da “Dave suona nel tour di Nico” a un progetto completo di collaborazione?
Nico: Durante lo “Space Is Only Noise” – non l’abbiamo mai chiamato così tra l’altro, ma retroattivamente ha senso chiamarlo così – abbiamo realizzato che stavamo andando oltre l’album, in territori che non avevamo mai esplorato da soli, per cui abbiamo deciso di iniziare qualcosa di collaborativo. Siamo andati in studio insieme, abbiamo iniziato a fare musica e funzionava bene, e poco dopo avevamo un album.
Credo che questo sia in qualche modo legato a quello che dicevamo prima sull’improvvisazione e sul fare in modo che le cose vengano fuori in maniera naturale, no?
Nico: Esattamente. Credo che io e Dave funzioniamo bene insieme perchè il nostro modo di comunicare è di fatto molto simile, e quando improvvisiamo insieme ognuno di noi spinge l’altro in direzioni in cui normalmente non andrebbe. Se Dave si sente bene, mi spingerà a sentirmi bene anch’io, musicalmente.
Parlando di “sentirsi bene”, in generale: una mia idea personale del vostro album, e del vostro stile in generale, è che ci sia una certa malinconia di fondo, che si presti bene ad ascolti più intimi, in un certo senso io la associo al lato più oscuro delle emozioni. Come bilanciate questo aspetto con concerti di grandi dimensioni e col gran successo che state ottenendo? Il contesto in cui io preferisco ascoltare la vostra musica è quando sono da solo, ma per esempio stasera non credo che la gente sentirà il vostro live da sola.
Nico: No, esatto, credo che tu abbia fatto una buona osservazione. Per esempio: il disco che ho ascoltato di più quest’anno, e l’ho ascoltato praticamente tutti i giorni, è l’album di Drake. Non so perchè, lo amo. Ma non vorrei mai andare ad un concerto e cantare le sue canzoni. Non vorrei mai condividere l’esperienza con qualcun altro, è solo mia. Ed è una sensazione strana, sono d’accordo. Per cui non so come farai stasera! Ma il modo in cui noi approcciamo la questione, è che noi vogliamo che la gente balli. Fondamentalmente, metà del tempo cerchiamo di far ballare la gente e l’altra metà cerchiamo di farla pensare, di far loro ricordare cose. Se va tutto bene, poi, l’elemento del ballare riesce meglio quando sei con altra gente. In questo senso, quindi, credo che sarai sorpreso quando sentirai che quella di stasera, di fatto, è dance music.
Quindi possiamo dire se ascolto la vostra musica da solo l’aspetto di “ascolto e penso” è preponderante, ma poi se cambio punto di vista e lo ascolto dal punto di vista “dance” allora rimane valido anche ascoltato in un contesto affollato.
Dave: Sì, e un’altra cosa da dire è che quando suoniamo live non cerchiamo di ricreare l’album, per cui ci troviamo già in un territorio nuovo. Usiamo l’album come punto di partenza.
Nico: Non suoniamo le tracce una dopo l’altra, anche se riesci a riconoscerle.
Dave: Durante il live probabilmente dici “Oh, questa è “The Only Shrine I’ve Seen””, ma è ridotta a piccole particelle, pezzettini che ricombiniamo in modi diversi, allungando e accorciando a seconda di come ci sentiamo.
E a seconda della diagnosi che avete fatto della stanza.
Dave: Sì, e delle vibrazioni che arrivano dalla sala, e di tutte le variabili che fanno parte di uno show, per cui usiamo le canzoni dell’album come un veicolo per l’improvvisazione. Rispetto a quello che ha detto Nico dell’album di Drake, che non vorrebbe andare a vedere un concerto e cantare le canzoni, credo che il nostro album e il nostro show esulino da questa idea, perchè la gente che viene a un concerto e si aspetta di sentire l’album sarà sorpresa: lo percepiranno, nello show, ma non sarà come sentire l’album. E’ una scelta che abbiamo fatto, ed è quello che rende divertente per noi fare concerti, perchè non ci sentiamo limitati dall’album.
Credo che questo sia un ottimo motivo per venire ad un vostro concerto, quindi.
Nico: Speriamo!
Torniamo un attimo su quello che avete detto sul ricordarsi cose del passato ascoltando la vostra musica; riallacciando anche il discorso ai richiami al blues e al rock, quindi alla musica del passato, presenti nel vostro disco: cosa ascoltavate nel vostro passato, da bambini, che ha fatto in modo che poi la vostra musica diventasse com’è ora?
Nico: Il primo ricordo musicale che ho, di quando avevo sei o sette anni, sono i Queen. Mi sembra di non aver ascoltato altro che i Queen per tutta la mia infanzia.
Siamo in due.
Nico: Ero un gran fan dei Queen: e se ci ripenso, i Queen erano opera, erano estremamente onesti anche se tutti pensano fossero pretenziosi, ma erano anche dance music; in qualche modo erano disco, ma erano anche rock. C’è tutto il mio DNA musicale, nei Queen.
Non l’avrei mai detto.
Nico: Ero molto piccolo, avevo i due Greatest Hits e li ascoltavo tutti i giorni.
E cosa ascoltava il piccolo Dave, invece?
Dave: Mio padre era un gran fan del jazz, aveva un’enorme collezione di vinili jazz che aveva iniziato all’università e che aveva mantenuto, per cui sono cresciuto in una casa in cui c’era sempre del jazz, e non ho mai ascoltato i Beatles fino a dieci o dodici anni, quando ho trovato la copia di mia madre di “Abbey Road” sepolta in mezzo ai dischi di mio padre. Sono cresciuto ascoltando jazz, per cui quando ho deciso di suonare ho iniziato suonando jazz, perchè era quello che avevo sempre ascoltato. E’ stato strano, ripensandoci ora, a dieci o undici anni, quando ho iniziato a suonare il basso, che è una cosa che poi ho fatto per dieci anni fino a quando poi ho iniziato a suonare con Nico, mi è sembrata una buona idea suonare jazz, mi sembrava ovvio, ma non sapevo perchè, ed era perchè di fatto il jazz era entrato a far parte del mio DNA.
In effetti non è proprio la musica tipica dei bambini di undici anni.
Nico: Questa cosa è interessante: sono sicuro che tu fai un sacco di interviste, e un sacco di artisti ti dicono che sono stati ispirati dall’electro dei primi anni ’80 o cose così.
Sì, credo sia una cosa tipica della nostra generazione.
Nico: Infatti, però, scusami, no! No! Sei ispirato dalla cucina di tua madre. Sei ispirato da quello che ti succede a scuola. La persona che ti ha mostrato quella roba anni ’80 è probabilmente il ragazzo di tua sorella maggiore, che hai voluto diventare nei cinque anni successivi, e questa è stata un’influenza molto maggiore di quelle stronzate anni ’80.
Sono completamente d’accordo, perchè uno dei miei primi ricordi musicali è quello che ascoltava mia madre in macchina mentre mi portava a scuola.
Nico: Esattamente. Bellissimo. Parliamone per un secondo, perchè non è solo il fatto che tu sentissi quella musica, ma anche che tu la sentissi ogni singola mattina. Con tua madre. Mentre ti portava a scuola. E poi lei ti lasciava lì, e anche la musica ti lasciava. Queste sono le cose che diventano importanti, e quelle che poi ti influenzano veramente.
Assolutamente, e mi accorgo che poi quella musica mi è rimasta dentro fino a oggi.
Nico: Cosa ascoltava?
Ascoltava un sacco di disco, funk e soul anni ’70, sai tipo gli Earth Wind & Fire e cose del genere, ed è probabilmente il motivo per cui oggi mi piacciono tutte queste cose nu-disco. E questo mi porta a un’altra cosa di cui volevo chiedervi, il vostro progetto Daftside, che mi ha lasciato veramente “wow”, perché avete preso un disco funk e soul e ne avete tirato fuori il lato oscuro. Come è nato il progetto?
Nico: Siamo dj, volevamo semplicemente farci degli edit. Abbiamo iniziato con l’edit di “Get Lucky”, poi quando è uscito l’album ho fatto un altro edit e l’ho mandato a Dave, e lui ne ha fatto un altro e ci siamo scambiati degli edit per un po’ fino a quando ne avevamo abbastanza da dire “ok, facciamo tutto l’album”. Ma oltre a questo, quell’album è in un certo senso rappresentativo di come funziona la cultura oggi, in tanti sensi, è una metafora della versione di oggi del capitalismo, del marketing e delle interazioni sociali attraverso le quali la cultura viene diffusa. Sai, tutto l’hype che ha preceduto l’uscita del disco, il video al Coachella, e così via. Una parte di noi, o almeno una parte di me, voleva prendere tutto questo, buttarlo in un bidone della spazzatura, scuoterlo e vedere cosa ne sarebbe uscito, perchè alla fine non è solo “il disco dei Daft Punk”, è diventato molto più di quello, è diventato una sorta di canovaccio di cui tutti fanno parte e che tutti conoscono, e una volta che inizi a giocarci è come avere un frame di riferimento completamente nuovo.
Però non in tantissimi hanno fatto qualcosa di simile. Voglio dire, in tanti hanno fatto edit o remix delle tracce, ma pochissimi l’hanno fatto in maniera così devastante, la maggior parte degli edit e dei remix che ho sentito sono alla fine molto simili agli originali.
Nico: Vedi, se avessimo semplicemente cercato di fare dei remix delle tracce, sarebbe stata un’altra cosa. Ma noi volevamo distruggerle completamente, non semplicemente farne dei dj edits.
Dave: Devi anche considerare questa cosa, credo dipenda dai tuoi contatti, ma capita un paio di volte all’anno in cui hai la sensazione che tutti stiano avendo una forma di dialogo con lo stesso pezzo di cultura. E ti ci devi confrontare. La maggior parte dei nostri amici sono musicisti, questa è la nostra community, e a un certo punto ti trovi in una situazione in cui tutti parlano del cazzo di disco dei Daft Punk, e arriva un momento in cui tutta la discussione, il parlare di cosa in effetti sia questo disco, diventa un esercizio di futilità.
Vero, è una cosa che capita spesso a noi che parliamo di musica, a un certo punto ci troviamo non tanto a parlare di musica ma a parlare di come parlare di musica, ed è una cosa estremamente futile.
Dave: Esatto. E per noi in tutto questo c’è stato un grosso elemento di scherzo e di goliardia, che credo sia una parte importante persino di tutta la politica del ventesimo secolo; quando ho ricevuto il primo edit da Nico era come se lui mi stesse strizzando l’occhio, perchè quando abbiamo iniziato a parlare dell’album e a relazionarci con esso usando la musica, creando dei suoni, per me una parte dell’esercizio è diventata non solo cercare di distruggere l’album e tirarne fuori il lato oscuro, ma anche farlo diventare quello che IO volevo che fosse. Perchè c’è tantissimo nell’album che si collega a cose che amo, come gli Steely Dan, o gli Earth Wind & Fire stessi, e ovviamente Nile Rodgers – è uno dei migliori chitarristi di tutti i tempi! – ma alla fine è stato un fiasco per me, perchè volevo così tanto che fosse qualcosa che poi non era, ed è da lì che arrivava tutta la mia energia verso questa distruzione positiva: ”suonano quasi come del jazz, perchè non provo a tirarne fuori del jazz fatto e finito?”
Nico: L’ultima cosa che voglio aggiungere su questo è che hai fatto un ottimo lavoro, perchè di solito odiamo parlare di questo, ma sei riuscito a renderlo divertente. Forse è il tuo abbigliamento disco che l’ha reso così naturale. Per me, un’altra cosa che è davvero importante è – (pausa) – ci sono due cose che ho imparato negli ultimi cinque anni nel music business che non mi piacciono: la prima è che non esiste alcun music business globale. E’ centrato attorno all’America e all’Inghilterra, forse hai un pochino di Germania e di Olanda, ma tipo l’Italia? Completamente fuori. La Spagna è completamente fuori. Tutta l’Africa è completamente fuori.
La Spagna al massimo entra nel radar del music business un paio di weekend all’anno giusto per i grandi festival.
Nico: Esatto, ma solo come una destinazione turistica, in realtà è come fanno gli inglesi con la Croazia. Il music business non è globale. C’è un music business locale dappertutto. Capisci cosa intendo? E questo mi porta all’altra cosa che odio – per via di questa egemonia, c’è una sensazione per tutti quelli che non sono in America o in UK che sia impossibile penetrare il mercato, di diventare un musicista.
Vero, è un tipico stereotipo del mercato musicale, che si debba sfondare negli USA per diventare “veri” musicisti.
Nico: Esatto, o che devi trasferirti a New York. Lo vedo un sacco quando sono in tour, e questo porta a uno strano ribaltamento: segui il mio ragionamento. Quello che voglio dire è che noi siamo come due mosche sul muro. Non abbiamo fatto nulla nè meritato nulla, siamo due produttori che non hanno niente della fama dei Daft Punk, nè facciamo gli show che fanno loro e così via. Abbiamo comprato l’album su iTunes, non abbiamo avuto gli stems per fare i remix, abbiamo solo messo online i remix e abbiamo avuto milioni di ascolti. Qualunque ragazzino al mondo può farlo. Puoi essere del Sudan e farlo. Ok? Questo è qualcosa che una parte di me ha sempre cercato di fare, perchè ad esempio la gente in UK non si rende conto che questa egemonia esiste ancora, perchè è all’interno della bolla. Non mi piace quando, ad esempio, il Sudafrica diventa di moda e tutti parlano dei produttori sudafricani, perchè di fatto è l’Inghilterra che “usa” il Sudafrica, come quando gli USA “usavano” Detroit. E’ un modo ipocrita di vedere la musica, la musica è globale. E’ strano che i Tale of Us siano l’unica cosa italiana di cui ho sentito parlare. C’è sicuramente musica magnifica in Italia, ovunque.
Sicuro. E non saprei neanche dirti perchè sia così.
Nico: E’ sempre stato così.
Dave: E’ una cosa post-post-coloniale.
Nico: E’ colonialismo, in un certo senso. Se ci guardi, è Francia, UK, Stati Uniti, Olanda, Germania. E nient’altro. Guarda le lineup del Primavera Sound, o del Sonar – e non lo dico contro questi festival, perchè è un problema generale. Guarda anche la mia cazzo di etichetta – stesso problema. Non è un problema di questo o quel festival, ma è un problema, e un problema che dobbiamo gestire.
Beh, quindi in un certo senso quello che avete fatto con i Daft Punk è una buona fonte di ispirazione per chi vuole diventare un musicista.
Nico: L’idea è che noi non abbiamo avuto niente, ci siamo comprati il disco su iTunes.
Dave: Di fatto ci è costato soldi farlo, non ne abbiamo ricavato niente.
Nico: E abbiamo usato Ableton Live, non avevamo l’equipaggiamento da milioni di dollari che avevano loro, ma abbiamo usato i loro milioni di dollari per fare i nostri edit.
E immagino che non abbiate neanche avuto nessun riconoscimento da loro.
Nico: No, ma chi se ne frega? A noi non interessa. E alla fine sono Dj edits che noi suoniamo nei party, perchè quello che vogliamo dire è “hai presente quella canzone pop, “Get Lucky” guarda cosa ci abbiamo fatto, guarda cosa chiunque può farci. Chiunque può fare qualunque cosa con qualunque musica”.
Mi pare un ottimo messaggio di libertà.
Nico: Sì, e la libertà è importante in musica, e spesso ce ne dimentichiamo.
Credo che questa sia la miglior conclusione che potessi immaginare per un’intervista. Grazie ragazzi.