Guardate a Berlino. Ma guardate a un’altra Berlino, non la solita, non quella che sappiamo tutti e che è entrata nella vulgata popolare del clubber: quella dei club che vanno avanti due giorni di fila, che la techno è ovunque, quella che tutto è facile tutto è semplice tutto è elettronica tedesca divertiamoci fino al giorno dopo. Bella eh, questa Berlino, non vogliamo assolutamente disconoscerne il fascino; ma c’è dell’altro, c’è in realtà un “modello berlinese” a cui è molto più importante guardare. Ed è quello che ci ha restituito il CTM Festival di quest’anno. Una delle edizioni più belle di sempre, per la “costola” un po’ più musicale e clubbara dello storico Transmediale (che quest’anno non abbiamo visto, e che a dire il vero nelle ultime edizioni iniziavamo a trovare di una noia e di una prevedibilità straziante).
Più belle di sempre, e senza nemmeno bisogno di effetti speciali. Certo, l’installazione “Deep Web” di Robert Henke (alias Monolake) e Christopher Bauder è abbastanza un effetto speciale in sé: per la location, la sempre pazzesca Kraftwerk (quella che ospita l’Atonal, per intenderci), per la meticolosità del lavoro assemblato dai due, una lunga geometrica teoria di lampade che venivano collegate tra loro da raggi laser e venivano mosse una per una creando ogni volta delle conformazioni diverse – davvero come stare dentro un reticolo di cellule neuronali ed osservare come entrano in relazione fra di loro tramite connessioni elettromagnetiche, il tutto ovviamente con un appropriatissimo commento musicale ambientale. Non grandioso, come progetto, ma affilatissimo e raffinatissimo. E apprezzatissimo, tanto che quando nella serata finale del festival la performance ha avuto una declinazione live la Kraftwerk si è riempita all’inverosimile (ad occhio, almeno 2500 persone), e considerando il prezzo del biglietto non proprio regalato è davvero un risultato notevole.
Il punto è che ottima affluenza e prezzo alto del biglietto sono state costanti del CTM 2016. Quindi ecco, scordatevi il mito della Berlino dove tutto costa dai 10 euro in giù: è finita, e se non è finita sta finendo. Vale per il clubbing “avanzato”, vale per l’elettronica sperimentale, vale per gli affitti, vale per i prezzi degli hotel: è finita, o sta finendo. Berlino si sta normalizzando come prezzi. Da un lato dispiace, dall’altro doveva accadere. Quindi ha senso fino ad un certo punto lamentarsi se l’ingresso ai singoli eventi del CTM spesso era vicino (o superava) la soglia dei 20 euro: nel momento in cui la risposta del pubblico è numericamente notevole, giusto farlo. Poi uno può anche discutere sul fatto che ormai a certi eventi in certe città ci vai più per moda che per consapevolezza e convinzione, ma è un discorso abbastanza problematico, soprattutto nel momento in cui arrivi a riflettere sul fatto che non si vede perché debba essere sempre il mainstream zuccheroso e sguaiato (nel pop, nel rock, nel clubbing) a prendersi la fetta grossa e pannosa della torta mentre alle frange un po’ più nobili ed acculturate debbano andare solo pane e acqua e frustate sulle mani. Il CTM vuole farci i soldi? A parte il fatto che non ne farà mai come quelli che scelgono di fare club culture tout court coi nomi à la page ovvero quelli che suonano sempre in giro, non vediamo che problema ci sia.
Soprattutto, non c’è problema quando fa le scelte giuste come quest’anno: la più giusta di tutti affidare la co-curatela artistica a Rabih Beaini (o Morphosis, se preferite), che si conferma una delle cose più belle siano accadute alla techno nell’ultimo decennio. Sì, perché lui è ancora incasellato come artista techno, ma in realtà la sua visione musicale è vastissima: una visione musicale che sarebbe fondamentale prendesse piede, piano piano, anche fra quelli che concepiscono la musica solo come techno, come house, come clubbing. Alla techno ci puoi arrivare, e ci puoi stare, anche stando immerso in consapevolezze jazz, in preziosità etniche, in una profondissima conoscenza della avanguardie sia storiche che contemporanee. Che Rabih sia così, lo ha dimostrato nel bellissimo set di chiusura festival al Watergate, ci dicono l’abbia dimostrato nel concerto di apertura con una superband approntata per l’occasione che ci siamo persi (il CTM dura ormai dieci giorni: dieci giorni per staccarci dal lavoro ordinario proprio non ce li abbiamo, e probabilmente non ce li hanno in tanti), lo ha dimostrato in varie scelte di cartellone che portano chiaramente la sua mano, a partire da quelle “libanesi”.
Ecco: tra scelte sue e scelte del nucleo storico del CTM, quest’anno si è andati veramente a star bene. Questo perché si avvertiva un preciso concetto/intenzione, ovvero un’apertura molto maggiore (o più oculata?) rispetto al passato verso le musiche del mondo e le contaminazioni tra avanguardia e animo ludico. Un approccio che tra l’altro è stato espresso perfettamente dalla bellissima mostra “Seismograpchic Sounds – Visions Of A New World”, il caposaldo del quartier generale del festival nel complesso del Bethanien: un viaggio attraverso i suoni del mondo fatto senza spocchia, senza complessi di superiorità occidentali, con un entusiasmo vero, con una raccolta di immagini e suoni “orizzontale” e soprattutto molto attenta ad essere viva, pulsante, non freddamente musicologica e catalogatoria.
Tant’è che forse il live più interessante/esaltante dell’intero CTM, almeno per quello che abbiamo visto noi, è stato quello architettato da Aisha Devi (che poi molti di voi conosceranno come Kate Wax) assieme all’artista/performer cinese Tianzhuo Chen e al ballerino sempre cinese Beio: un clash fra electro-con-voce un po’ ambientale un po’ destrutturato, le tradizioni dell’antico teatro-danza orientale e la tamarraggine estrema dei nostri tempi, quella di taglio più rappuso. Tre cose che in teoria non c’entrano l’una con l’altra, ma che invece sono state messe in relazione e calibrate tra loro (con anche momenti spettacolari ed esplosivi) in quasi due ore di live. Altra cose notevoli viste al Berghain: le tre ore di musica molto timbrica ed atonale eseguite da Iancu Dimitrescu e Ana-Maria Avram col loro Hyperion Ensemble (una vera e propria orchestra con strumenti tradizionali più un laptop e il featuring occasionale del luciferino Stephen O’Malley), Visionist coi visuals di Kevin Bray, il trio del venerdì Kassem Mosse, Gesloten Cirkel, Alienata (non tutti insieme, ma uno dietro l’altro). Dicevamo Berghain? Dicevamo Berghain, sì. Chi non è venuto gli ultimi anni al CTM potrebbe sorprendersi a vedere il tempio della techno e del balliamo-per-36-ore-di-fila completamente colonizzato da un pubblico diverso, molto intellettualoide e poco danzereccio, ma in realtà (anche) tutto questo è molto berlinese.
E’ molto più berlinese anzi un pubblico attento a deviazioni e sfumature particolari dell’elettronica piuttosto che i torpedoni di Easyjet ravers. I secondi ci vogliono e sono benvenuti, tengono in piedi l’economia, ma i primi sono la vera anima della città. Anche in musica. Perché è sempre molto berlinese – apparentemente controcorrente – la scelta di spostare il clou serale del sabato allo Yaam, storico locale di musica black e giamaicana (che ora occupa gli spazi del defunto e leggendario Maria). La situazione è strana: pallidi intellettuali della sperimentazione che si mischiano, nelle varie sale del locale, con sani giovanotti che vogliono il rap, il twerk, il ragga. Assurdo, ma molto berlinese. Funziona solo in parte: anche perché la qualità artistica della serata, tolti forse alcuni dj set appaltati alla cricca Disco Halal, è un po’ così così.
Però ecco: prendersi dei rischi. Contaminare. Uscire dalla logica dei “soliti” nomi. Guardare alle avanguardie storiche degli anni ’60 e ’70 e capire quanto siano attuali ancora oggi. Tentare di dialogare con le musiche del mondo, mettendosi da pari a pari, e pazienza se questo significa anche intamarrirsi un po’ (anche perché comunque sacche di cerebralissima qualità sono cose che non mancano e che nessuno toglierà mai). Questo il messaggio del CTM quest’anno, come e più di altri anni, e questo è il messaggio più interessante che può arrivare da Berlino oggi come oggi, musicalmente parlando, e parlando prima di tutto agli appassionati di elettronica. Una città che è sempre stata “politica” nel suo porsi verso la cultura, l’intrattenimento: e infatti la già citata mostra “Seismographic Sounds” (creata dal collettivo Norient) ha nell’impostazione e anche nelle parti testuali una forte connotazione politica, ovvero di critica (o almeno “attenzione”) verso i rischi del pensiero unico capitalista. Lo fa per fortuna non con modi, slogan e linguaggi polverosi mutuati dagli anni ’60 (come spesso si fa qui da noi), ma cavalcano gli alfabeti della contemporaneità. Non potete capire quanto questo sia rinfrescante, e stimolante.
Guardate a Berlino, quindi. Guardate (anche) verso questa Berlino, che ora vi abbiamo raccontato. Una Berlino anche approssimativa, un po’ naif, con momenti dove è bella l’idea ma noiosa la sua traduzione in pratica (l’abbiamo pensato in più di un dj set, nella settimana passata al festival); però una Berlina viva, vitale, che si pone al centro del mondo dell’entertainment di nuova generazione più per la dinamicità delle sue idee che per la potenza delle sue economie. E se poi da tutto questo inizia anche ad alzarci qualche soldo non la vediamo come una contraddizione, ma come un giusto primo passo verso la redistribuzione delle risorse. Le idee e gli stimoli sono un valore, vanno pagati. Di gente che non vuole dare al botteghino di un club o di un festival quello che è prontissima a dare a un barista o al proprio spacciatore di fiducia, ecco, iniziamo ad averne abbastanza.