Un Tune significa qualcosa come “senza melodia”, “non calibrato”, “non sintonizzato”. E’ il motto dell’edizione 2015 del CTM Festival. Noi ci siamo stati ed è durato molto. Sì, perché questa volta il festival, come ormai non accadeva da diversi anni, è stato spalmato su dieci intensi giorni, carichi di performance e live – quest’ultima non è una novità – e con l’introduzione di nuove “venue importanti” ad aggiungersi alle solite note. Una su tutte lo Yaam, rinnovato dopo la chiusura improvvisa dell’anno passato e spostato solo di un centinaio di metri, letteralmente “dietro l’angolo”. Altra location novità è l’Astra, sito solitamente adibito ai grossi concerti berlinesi.
I numeri dell’anno scorso si aggirano sulle 25.000 presenze con la metà esatta proveniente da fuori Germania. Siamo in attesa di capire i numeri di quest’edizione che, ad una prima stima a spanne, sembra superare o quantomeno pareggiare quelli del 2014. Ciò di cui ci siamo accorti però, è la scarsa presenza di addetti ai lavori italiani.
Per trarre immediatamente le conclusioni e poi parlare di quello che abbiamo visto, possiamo dire che è stata un’edizione forse leggermente sottotono rispetto a quella passata, nonostante la line up fosse intrigante. Vuoi per alcune scelte di scaletta sbagliate, vuoi per diversi act sottotono. Vuoi perchè mantenere lo stesso livello per dieci giorni è effettivamente difficile. Con questo non vogliamo dire che sia stato un CTM deludente, ma solo che le aspettative non hanno mantenuto fede. Quantomeno le nostre.
In tutto questo però abbiamo anche goduto di momenti altissimi, il live di The Bug e quello di Powell su tutti. Kevin Martin con il progetto “Sirens”, al Berghain, viene supportato da un soundsystem di una imponenza invidiabile, all’entrata vengono consegnati tappi per le orecchie e cartelli informativi avvertono il pubblico dell’intensità ‘violenta’ delle onde sonore prodotte dal suo live. Lontano dagli stilemi della sua dancehall acida e dai monumentali beat di Techno Animal, lontano dall’oscurità dei King Midas Sound, l’inglese propone un live ove i livelli di droni e rumori bianchi si sovrastano e schiacciano, lasciando letteralmente senza respiro. E’ uno di quei momenti in cui ci si può chiedere: “Chissà come suonerà il mondo quando tutto ciò finirà.”
Powell, il ragazzo della Diagonal, smuove le teste e le gambe. Il suo live è un attacco epilettico che ha radici antiche, negli anni novanta, strutture che scivolano tra il noise e la techno in un’esibizione trascinante e perfetta, stimolante con mille fronzoli ma tutti nel punto giusto. Il pubblico del Berghain ne gode.
Lode anche per Prostitutes, in ottima forma. Altra valanga di violenza sul dancefloor.
Dubbi invece per Evian Christ e Egyptrixx, non solo per loro colpa, in realtà. Il primo viene posizionato in un giorno debole, il giovedì, e in un running order azzardato, subito dopo il live accesso e ipnotico di Gazelle Twin, risultando meno d’impatto. Il secondo invece, ancora peggio, suona il venerdì dopo i pugni techno di Prostitutes. Entrambi però, nonostante quando si “aprano” siano godibili di suoni invidiabili, peccano di introduzioni troppo lunghe e di live troppo frammentati. Evian Christ si salva in gran parte grazie alla già rodata performance luci-laser.
Continuando con le performance convincenti, sottolineamo quella di Lawrence English. Movenze circolari per musica circolare.
Bene anche l’accoppiata Sherwood & Pinch, forse un po’ troppo impiccati nella consolle del Panorama Bar, ove con il loro live dubtech sbatacchiano corpi e natiche. Mosche bianche all’interno di una line up di tutt’altra pasta, formata dai ben più allegroni Errorsmith e rRoxymore su tutti.
Le vere mosche bianche del festival però sono gli Electric Wizard. Le male lingue potrebbero sussurrare di un concerto per fare cassa, anche se la logica generale ci fa pensare che è un’ipotesi un po’ azzardata. Allora continuiamo a chiederci il perché dell’inserimento della band di Dorset in un festival con un imprinting completamente diverso dal loro.
La kermesse si apre ufficialmente giovedì con l’Opening dell’Exhibition al Kunstraum, ma gli act iniziano sabato allo Yaam, con due sale su tre aperte. E’ qui che vogliamo regalare volentieri due parole al giovanissimo Franz Bargman e altre due all’altrettanto giovanissima producer polacca Zamilska.
Bargman, chitarrista noto per le sue coinvolgenti performance nella U-Bahn berlinese, abbraccia la sua chitarra sotto una cascata di nastri di seta, avvolto da una fievole luce azzurra. Si accartoccia sul suo strumento, su se stesso e dentro i meravigliosi suoni che riesce a produrre, tra melodie ambient e post-rock a sospendere un pubblico ipnotizzato dall’inizio alla fine della performance.
Zamilska invece, uscita nemmeno un anno fa con il suo primo album, che s’intitola – coincidenze? – “Untune”, imbastisce un live molto più “ballabile” rispetto alle sue produzioni, andando contro il mood della sala, ma riuscendo a far divertire comunque tutti. Brava.
Pollice verso invece per l’esibizione degli Oake, orfani di Bathseba, decidono di azzardare un live luci – manovrato proprio da Eric – a supporto di una performance di teatro-danza con l’album in playback. Peccato che lo spettacolo viene visto soltanto da una decina di persone, quelle in prima fila, mentre il resto del pubblico deve immaginare, accontentandosi del gioco di luci.
Ultime parole per JK Flesh prima di passare alla performance di chiusura del festival, dove l’accoppiata Chris Carter and Cosey Fanni Tutti ha dimostrato ancora una volta di poter dettare legge nonostante gli anni che passano.
Ad ogni modo, l’ex chitarrista dei Napalm Death, con il suo approccio piuttosto “punk” al live, regala grandi emozioni e grandi dolori. E’ un tornado di violenza pura, alimentato da visual desaturate che ritraggono le più tristi immagini della sua collezione privata. Simpatico siparietto quando, durante il live, la musica si arresta e l’americano si trova a guardarsi attorno smarrito, in cerca di una spiegazione. Il fonico da palco gli si avvicina, afferra una delle USB staccatasi dal laptop a seguito del suo sbattersi continuo e la riattacca. Tutto riparte, Justin Broadrick alza le braccia al cielo in un urlo liberatorio e si rituffa sul microfono e sulle macchine.
Dicevamo di un finale con Carter Tutti Void di livello impressionante. E’ un’emozione vedere salire sul palco gli ex Throbbing Gristle ed altrettanta emozione sentirli suonare insieme a Nik Colk, bassista dei Factory Floor. Trame imbevute di oscurità. Vortici acidi, drogati, che sembrano non aver mai fine. Applausi scroscianti.
Pollici in alto anche per le giapponesi Nisennenmondai. Premio speciale alla batterista che più che suonare sconta una punizione. Guardatevi un loro video live a caso, per capire cosa intendiamo.
Stessa sorte per The Sprawl debutto riuscito del nostro Shapednoise insieme a Mumdance e Logos. Qualche rifinitura ovvia da apportare – è un live nuovo di zecca – ma tantissima ricerca e sperimentazione. Sonorità spazio-dimensionali che scorrono sotto pelle ed erodo i timpani. Bravi.
Infine, a completare il quadro, riusciamo a vedere anche la premiere mondiale degli Emptyset, seduti sulle scomodissime poltroncine dell’HAU1. “Signal” è un “Radio-live” basato sulla propagazione ionosferica di onde sonore ricevute da segnali radio. Una cosa difficile da spiegare che si basa su condizioni ambientali e atmosferiche. Non sappiamo, onestamente dire, quanto sia stata una performance riuscita, al di là del puro risultato live senza pecche. A noi è piaciuto, ma da profani.