Poche parole qui, semplici. Perché quelle che seguiranno più sotto sono tantissime, ed incredibilmente preziose. In brevissimo: Gaetano Parisio, chiedete a chiunque sia realmente dentro la “scena”, è uno dei padri della techno napoletana. Punto. Avesse fatto le cose “a modo” (virgolette d’obbligo), ora ci sarebbe anche lui a mietere ingaggi a cinque zeri, hotel a cinque stelle, e tutto il resto del cucuzzaro. Invece ad un certo punto – proprio nel momento in cui le cose stavano finalmente decollando, basta vedere la cronologia della carriera di alcuni colleghi ed amici stretti – ha deciso progressivamente di scomparire. Prima dalle console, poi via via anche il resto. Questo fino a quando le cose sono cambiate, da un lato; ma dall’altro, come ci racconta, sono invece rimaste ferocemente le stesse. Anzi: sono ritornate le stesse. Un ritorno il suo accompagnato da alcuni eventi ben calibrati – tra cui un epico ritorno nella natìa Napoli al Duel – e da una serie di centratissime ed affilatissime release, a nome “Re-Touched Series”, che rimettono in circolo, attualizzandolo, parte del back catalogue della sua Conform affidandolo anche a un remix treatment di livello, ma con scelte ben precise a livello artistico. Ok. Ma basta parole qui. Largo ad una delle chiacchierate più intense, emozionanti e vive siano mai apparse su queste pagine. Iniziata parlando nemmeno di musica, ma di calcio; ma in realtà, parlando delle emozioni più autentiche, profonde, personali.
Guarda, partirei non dalla musica ma da Maradona – visto che ci siamo accordati per questa intervista a pochissimi giorni dalla sua morte. Morte che so che ti ha colpito molto, l’emozione è ancora tanta. Cosa ha rappresentato per te, Diego? E cosa rappresenta lui in generale, lui che è un calciatore e non un artista, o un politico, o non so che altro?
Partiamo da come andrebbe definito, Maradona: credo che definirlo solo “calciatore” sia molto riduttivo, specie se parli con argentini o napoletani, ma penso in realtà non solo con loro – credo un po’ con tutti quelli che sono stati testimoni diretti della sua carriera. Sai, quando ha iniziato a girare la notizia della sua scomparsa è stato… (pausa, NdI) Guarda, mettiamola così, ti racconto proprio come è andata: ero in studio, stavo registrando; alle 19 ne esco, riprendo in mano il telefono, leggo un messaggio che mi è arrivato e – sai quando leggi qualcosa e non puoi fare altro che dirti incredulo “Eh? No no, assurdo, non è possibile, non ci credo”…? Ecco. Ho controllato subito su internet, ho scoperto che purtroppo era tutto vero. La mia reazione lì è stata quella che credo sia stata la reazione di milioni di persone: ho pianto. Tanto. E non mi vergogno a dirlo. Il fatto è che lui ha rappresentato e rappresenta qualcosa che va molto, molto al di là della sua carriera, dei suoi dribbling e delle sue vittorie: lui è stato, ed è, un simbolo di rivalsa sociale, di riscatto. Soprattutto per popoli spesso sofferenti, spesso giudicati male o sottovalutati. Non voglio fare la vittima, eh, ma è oggettivamente così. Analizzando poi più a fondo il mio pianto, la questione è che con lui se ne andava via anche un pezzo della mia storia personale, della mia infanzia: ci sono dei personaggi che, tu lo voglia o meno, hanno caratterizzato una fetta importante della tua vita, e Maradona si portava con sé per quanto mi riguarda tantissimi ricordi, tantissime emozioni. Non ho pianto per la scomparsa di persone molto più vicine a me e che conoscevo di persona; per lui invece l’ho fatto. Sì. E’ che dipende davvero dalle emozioni che una persona ti ha regalato, e questa persona può anche essere un artista, uno sportivo, un personaggio pubblico – che in quanto tale è “entrato” nella tua vita, in profondità. Maradona, per un mare di persone, ha rappresentato colui che “…ha fatto diventare giganti i nani“, ha fatto sentire argentini e napoletani allo stesso livello di chi invece era storicamente abituato a vincere. Ci sono persone che questo lo capiscono, ed altri a cui queste sensazioni ed emozioni non arrivano. Ci sta. Su Facebook ho visto tante reazioni, anche di miei concittadini eh!, indignate per la portata del lutto attorno alla figura di un semplice calciatore. Pazienza. Non ci fai caso, passi oltre: perché tu sai quello che ha rappresentato per te. Lo sai. Io sono felice, veramente felice di aver potuto vivere in prima persona un periodo assolutamente incredibile, forse irripetibile – quello di Maradona a Napoli. Mi ricordo di quando mio fratello, che ha quattro anni più di me, mi portava a vedere gli allenamenti del Napoli: per quella cosa l’ho ringraziato non sai quante volte. Perché il ricordo di quegli allenamenti mi è rimasto, eccome, e mi è rimasto molto più di una lezione di latino o di matematica. Sai, è come quando viaggi, come quando paghi per viaggiare: paghi per arrivare alla meta, sì, ok, ma paghi soprattutto per il ricordo e le sensazioni che poi quel viaggio ti lascerà. Tornando nello specifico a Maradona, e facendo un parallelismo con la musica: molto spesso mi chiedono “Ma cos’è secondo te l’underground?”. Bene, proprio l’altro giorno parlavo con Lorena, la mia campagna, e mi sono ritrovato a dirle “Maradona è la perfetta definizione di underground”. Anche io e te ne abbiamo parlato spesso fra di noi di cosa sia l’underground, quando ci incontravamo, vero?
Eccome.
Ecco: underground è scegliere la strada più difficile al posto di quella più facile. Ed è quello che ha fatto Maradona: ha scelto la passione ed il cuore al posto dei soldi. Poteva giocare nella Juventus, Agnelli gli propose un assegno in bianco, ma lui rifiutò. E figurati se nella Juve non avrebbe avuto vita più facile… Invece Maradona ha sempre difeso la città, ha sempre difeso i compagni di squadra. Sempre. Sia chiaro, non voglio farne un santo, perché un santo non lo era di sicuro, lo sappiamo tutti. Ma uno nella sua vita privata può fare quello che vuole, ognuno ha il diritto ad avere le sue debolezze; ciò che conta è non fare del male agli altri, questo il discrimine. E l’unica persona a cui Maradona ha fatto del male, è stato se stesso.
(Gaetano in studio; continua sotto)
Continuando in questo parallelismo tra musica e calcio: a proposito di passioni, credo che la scena techno napoletana ne abbia suscitate e ne susciti tutt’ora tantissime, proprio tantissime. Ha un seguito davvero enorme, basta vedere suonare in giro Marco Carola o Joseph Capriati e l’amore del pubblico che si portano dietro, è proprio un fenomeno particolare. Quando voi avete iniziato – te lo chiedo perché tu sei stato veramente uno dei pionieri della scena, assieme a Marco e pochi altri – avevate idea o anche solo la speranza che prima o poi potesse diventare un fenomeno così importante, in grado di suscitare passioni così di massa? O, come invece sospetto, voi eravate solo persi nel vostro viaggio e non vi ponevate problemi di questo tipo di, diciamo così, prospettiva?
Assolutamente la seconda. Io non ho mai intrapreso questo viaggio – un viaggio bellissimo, eh – per l’idea di diventare famoso, di essere “conosciuto”. Ma ti dirò di più: non l’ho nemmeno intrapreso con l’idea che avrei iniziato a farne io, di dischi, figurati! Ho comprato le prime macchine che ero ancora un piccolo ragazzino che stava dietro le console, a guardare quasi incantato quello che stava succedendo: i primi dj di peso arrivavano a Napoli, e io ero assolutamente entusiasta di tutta quella magia che si ricreava semplicemente mettendo una puntina su un vinile. Volevo giusto capire, volevo imparare a riprodurre quei suoni, comprendere come si potevano generare: per questo mi ero comprato le macchine. Tutto qui. Non c’era nessuna idea di “carriera” mentre acquistavo l’Atari, la 909, i miei primi synth, tanto più che una volta comprati poi c’era il problema di farli funzionare – ovviamente non c’era nessun tutorial in giro, ti dovevi proprio arrangiare in maniera molto ingenua! E il processo di apprendimento è stato sempre molto inconsapevole, “selvaggio” quasi. Non c’era una progettualità, non c’era nessuna consapevolezza, nessun obiettivo specifico. E questo, ti dirò, è stata una benedizione. Anzi, proprio un’”arma”: ciò che ha permesso cioè a noi ed alla nostra scena di resistere nel tempo, di durare, di mantenersi viva e coinvolgente. Perché se fin dall’inizio fai qualcosa non per te stesso ma per compiacere gli altri o per inseguire un obiettivo, un lucro, la verità è che inizia ad esserci fin dalle radici un processo di degrado della tua libertà e, quindi, della tua forza. Il partire sentendosi completamente liberi di sperimentare, di esprimersi, senza nessuna regola imposta dall’alto da seguire e senza pensare che ciò che tu faccia debba ottenere dei risultati tangibili, debba insomma “finire in classifica”, è la base per far sì che ciò che tu crei e ciò che tu sei come artista possa durare nel tempo. La musica è come la matematica: sono numeri messi assieme. Se hai un minimo di conoscenza, non è in fondo così difficile decodificare delle soluzioni armoniche, ritmiche, melodiche che siano accattivanti all’ascolto. Sai qual è stata la nostra fortuna? Noi queste regole non le conoscevamo. Non ne avevamo idea. E quindi, tutto ciò che abbiamo fatto iniziando a creare musica è stato fatto per il gusto di poterlo fare, o al massimo col sogno di poterle poi far ballare in pista alla gente, a un gruppo di amici; non ti immaginavi di farlo per la fama, non ti immaginavi di farlo per finire in testa ad una chart, nella copertina di un magazine. Niente di tutto questo, zero. Si tratta proprio di approcci differenti. In tutta sincerità: se dovessi dare un consiglio ad un ragazzo agli inizi, il consiglio sarebbe proprio quello di disimparare tutto quello che oggi la società, i media, i social network ti insegnano: ovvero che conti solo se i tuoi numeri valgono. Mentre la verità è che i tuoi numeri valgono sì ma valgono solo come sintomo, solo come parte di un processo, e non come obiettivo finale e primario. Non devono mai essere il goal finale. Facendo un paragone impegnativo è come quando entri in una relazione: molte persone sono disposte a tutto pur di avere un figlio, entrano in una relazione solo per raggiungere questo obiettivo, no? Quando in realtà un figlio dovrebbe essere solo la conseguenza – la conseguenza più bella – di una storia bellissima. C’è una bella differenza tra “obiettivo” e “conseguenza”, qui. Bene: con la musica potrebbe e dovrebbe essere lo stesso.
Io ero un dj che, in quel periodo, si stava avviando verso un’attitudine piuttosto triste, quella cioè dell’artista che si mette a guardare agli hotel cinque stelle, a un certo tipo di benefit: non era quello che mi avevano insegnato i miei genitori, per niente, ma diventare viziati è un attimo. Il cervello umano è fatto così
Ma quando nella fase della tua ascesa iniziavi a vedere che attorno a te montava l’attenzione e, detto chiaramente, il successo, che emozioni provavi? Soddisfazione? Indifferenza? Addirittura fastidio?
Provavo molta sorpresa. La prima volta che ho capito che quello che stavo facendo chiuso in uno studio in uno scantinato potesse avere qualche rilevanza al di fuori di quelle quattro mura scavate sotto terra è stato quando con Marco Carola andammo in Inghilterra, era il 1996, e io portai con me questa cassetta – una TDK da novanta minuti, me lo ricordo ancora. C’erano sopra sedici, diciotto tracce, roba di una qualità infima. La diedi, senza molte speranza, a John, capo di quello che all’epoca era uno dei distributori più forti per un certo tipo di elettronica, la Prime. Non puoi capire l’emozione ma anche la sorpresa quando, due settimane più tardi, John mi richiamava per dirmi che sì, alcune tracce erano buone ed aveva deciso di pubblicarle. Hai presente quei momenti, quei ricordi che restano scolpiti nella tua memoria e non se ne andreanno mai via?
Decisamente.
Sai qual è la prima cosa che feci?
Quale fu?
Andai da mio padre. E qui devo spiegare bene perché.
Vai.
Poche settimane prima di quel fatto, ero tornato a casa dopo un esame all’università, un tristissimo diciotto preso in un complementare, alla Facoltà di Legge. Lui era molto scontento. Ne nacque una discussione, ad un certo punto dissi a mia mamma “Mamma, tu vuoi avere nella tua vita un figlio felice o un avvocato depresso?”. Finì che mio padre sancì un patto: “Facciamo così, Gaetano. Torna qui fra pochi giorni. Ci sediamo a tavola, qui, io e te. A quel punto, mi dirai cosa vuoi fare veramente nella tua vita. Qualsiasi sia la tua scelta, io non la sindacherò; ma tu devi promettere a me ed a te stesso che questa scelta la porterai avanti al cento per cento”. Arrivò il momento di questo incontro e, insomma, puoi immaginare la sua faccia quando dissi “Io voglio fare il dj”: era il 1993, o il 1994, e in quegli anni era da folli dire una cosa del genere. Da folli. Lui però non batté ciglio, fedele alla sua promessa. Capisci ora perché la prima, primissima cosa che feci dopo la telefonata dall’Inghilterra fu il correre da lui per dargli la notizia?
Caspita, se lo capisco.
Volevo ripagarlo della fiducia data, ci tenevo incredibilmente tanto. Ecco: io spero di avere coi miei figli – quando lì avrò – lo stesso tipo di coraggio, la stessa capacità di lasciarli andare, di avere fiducia in loro, di credere nelle loro passioni, anche se sul momento ti sembra una scelta troppo difficile o con poco senso. E’ durissima, eh: perché un genitore vuole per il proprio figlio sempre il meglio, ci vuole davvero molto coraggio per lasciargli la libertà di scegliere – e per capire che non per forza quello che secondo te è il meglio è il meglio anche per lui. Io non sono ancora padre, spero di diventarlo presto, ma essere genitori è tostissima. Tornando comunque alla tua domanda originaria: no, non avevo la minima idea che tutto quello che stavo facendo mi avrebbe portato, vent’anni dopo, ad essere ancora qui. A parlarne ad esempio con te qui adesso.
In mezzo a tutto questo però c’è stata una fase forte, feroce di rigetto, che rende la tua storia artistica molto particolare.
Sì. La fase di rigetto è stata fortissima, e lunga. Ma vedi, non era una fase di rigetto contro la musica; no, era una fase di rigetto contro tutto quello che le girava attorno, contro la “scena”. Nasce tutto purtroppo da un evento molto traumatico: la perdita di mio padre, e non tanto per la perdita in sé, ma per come è avvenuta. Inizia tutto mentre ero in tour in Giappone assieme a Carola (Pisaturo, NdI), all’epoca anche mia fidanzata. Arriva una telefonata da mio fratello: “Papà si è ammalato”. Torno subito a Napoli. Cerchiamo di capire qual è il modo migliore per gestire tutta questa situazione. Era tumore. Non so se ti è mai capitato di dover affrontare una cosa così…
…sì, sì.
E allora sai che finché non ti capita, finché non ci sei in mezzo, non sai proprio come affrontare la cosa. Cerchiamo di curarlo. Andiamo negli Stati Uniti, all’inizio lo accompagno solo io, verso una clinica a New York, a Staten Island, piena tra l’altro di pazienti italiani: tutte situazioni da “viaggio della speranza”, con storie strazianti di famiglie che si erano vendute la casa pur di avere ancora qualche possibilità di sconfiggere il male, di trovare qualcuno che ci riuscisse. Quell’esperienza fu uno choc. Io ero un dj che, in quel periodo, si stava avviando verso un’attitudine piuttosto triste: quella cioè dell’artista che si mette a guardare agli hotel cinque stelle, a un certo tipo di benefit. Non era quello che mi avevano insegnato i miei genitori, per niente, ma diventare viziati è un attimo, credimi, un attimo. Il cervello umano è fatto così. E sì, io mi stavo un po’ abituando ad un certo tipo di routine anche perché nella nostra “scena” ormai era abbastanza consolidato il meccanismo per cui più avevi pretese di un certo tipo, anche molto frivole e stupide, più venivi rispettato e preso sul serio. In mezzo a tutto questo, all’improvviso mi sono trovato catapultato invece in una esperienza durissima, durata non meno di due mesi, in cui col fatto che ero un po’ l’unico a sapere bene l’inglese ero stato anche scelto dai medici per tradurre ciò che dovevano dire alle altre famiglie italiane presenti lì: il più delle volte, dei messaggi di morte, “E’ finita, non c’è più nessuna speranza, potete fare i bagagli e tornare a casa”. Capisci?
Accidenti.
Ad ogni modo, dopo queste esperienza tremenda, provo a ripigliarmi, a riprendere in mano la mia vita lavorativa. Parto per un tour negli Stati Uniti: ventuno date in trenta giorni, con spostamenti assurdi, mi ricordo ancora adesso che le ultime tre date erano Alaska-Houston-Chicago. A Chicago devo suonare alla House Of Blues: pista davanti a me piena, Dj Sneak che mi cede il posto in console perché toccava a me iniziare. Io resto un minuto in piedi, in silenzio, davanti a piatti a mixer, e sento solo un silenzio totale dentro di me. Non provavo nulla. Nulla. In quel momento, ad essere lì come guest di una serata, con della gente euforica di fronte a me, stavo mentendo a me stesso: mentivo a me stesso, e a tutta la gente che avevo davanti. Mi sentivo un impiegato di banca, uno che deve timbrare il cartellino. Non c’era nessuna passione. E visto che per me la musica è passione – e l’ho dimostrato coi fatti, oggi sono ancora qui a farla, ad amarla, no? – a quel punto ho deciso che dovevo completamente abbandonare le scene. Completamente. Smettere di suonare come dj. E dedicarmi solo alla produzione. Mi viene in mente un proverbio cinese…
Quale?
“Non puoi mai sapere come va a finire una storia, finché la storia non finisce; e solo in quel momento capisci se tutto quello che ti è capitato era un bene, o un male”. Devo dire la verità: questo blocco che mi ha colpito è stato, col senno di poi, una grande fortuna. Se non ci fosse stato, oggi sarei probabilmente una persona molto diversa da quella che sono adesso. Peggiore, credo. Assuefatta a tutto quello che è “circo”. Invece, fermandomi, ho avuto il tempo di riflettere, di leggere, di capire.
Chicago, devo suonare alla House Of Blues, pista davanti a me piena, Dj Sneak che mi cede il posto in console perché toccava a me iniziare: io resto un minuto in piedi, in silenzio, davanti a piatti a mixer, e sento solo un silenzio totale dentro di me. Non provavo nulla. Nulla. In quel momento, ad essere lì come guest di una serata, con della gente euforica di fronte a me, stavo mentendo a me stesso
Ma i tuoi colleghi ed amici cosa ti dicevano, in quel periodo? Provavano a farti cambiare idea?
Per fortuna non sono mai stato messo nella necessità di dover spiegare le ragioni della mia scelta, mentre la scelta era in atto; semmai è successo ora, ora che sono tornato. A tutti dico semplicemente: “Le ragioni per cui ho smesso, sono le stesse per cui ora ho riiniziato“. Amore per la musica, amore per quello che faccio. Sono poche le cose che devi veramente curare nella vita, quelle da difendere col cuore e con i denti: la salute, la famiglia, le proprie passioni. Perché arriva sempre il momento in cui devi fare i conti con te stesso; e che riguarda la tua sfera interiore, è il dono più prezioso. Uno può anche stroncare una tua release: ma se tu sai che era la cosa “giusta” per te, che era esattamente quello che volevi fare, quella stroncatura non ti toccherà minimamente, resterai soddisfatto. Se invece vai a suonare in giro e sai dentro di te che hai suonato male, sappi che non esiste pacca sulla spalla o sorriso di tutte le persone attorno che ti farà sentire bene per davvero, e questo anche se per tutta la sera hai avuto davanti un pubblico osannante. Chiaro: devi essere molto forte, come personalità, per restare fedele a te stesso. Perché le tentazioni lungo il cammino sono tante, tante, tante.
E’ anche per essere protetto da queste “tentazioni” che, al momento di tornare in pista, hai voluto riprendere in mano un pezzo del tuo passato, con la “Re-Touched Series” da far uscire sulla “tua” Conform? Conoscendoti, non credo sia stata una scelta non meditata, fatta insomma solo per semplicità e velocità – e magari per convenienza.
Effettivamente no. E’ stato un processo lungo. C’ho riflettuto sopra parecchio. Una volta fatta pace con me stesso, sono uscito dall’isolamento – ma è stato un isolamento lungo anni. E non uso “isolamento” con leggerezza: quando Lorena mi ha conosciuto, ha trovato un tizio che era tutto il tempo sepolto sopra una poltrona Ikea (improponibile, tra l’altro), in una stanza, attorniato da tre cani, e da lì non mi volevo muovere. E’ stata lei a spingermi a dare di più, ad uscire da questa stasi, le devo tantissimo. Poi i casi della vita vogliono anche che trasferirsi a Barcellona mi ha portato ad incontrare persone nuove, ma soprattutto a capire che stavo “lasciando indietro” qualcosa. Qualcosa che dovevo riprendere in mano. E a ricordarmelo c’erano gli attestati di stima di tante persone anche ventenni, trentenni. Insomma: dovevo riiniziare. Dovevo però decidere come. Iniziare con una nuova label, da zero, sarebbe stata probabilmente la cosa più facile ed immediata. Ma ho pensato che se veramente volevo che questo ritorno fosse serio, sincero, coerente, dovevo ripartire da un discorso apparentemente interrotto, riprenderlo in mano. E riprenderlo in mano nel modo giusto. Ho iniziato un lungo processo in cui ho deciso di disimparare un sacco di cose che avevo imparato nel frattempo, tornando ad essere il Gaetano Parisio venticinquenne: quello degli inizi, non quello che qualche anno più tardi aveva iniziato ad imborghesirsi e a viziarsi. Ho fatto davvero un intensissimo lavoro psicologico su me stesso. Psicologico, ma fatto di cose anche incredibilmente pratiche: ho scavato nella mia memoria per andare a ripescare cosa provavo a stare dietro ad una console le prime volte, come respiravo, come mi comportavo, cosa facevo; e anche in generale come era la mia quotidianità, quando e quanto stavo in studio, se riuscivo a finire una traccia in un giorno e se sì, perché. L’obiettivo era chiaro: dovevo tornare ad avere le stesse motivazioni che avevo all’epoca dei miei esordi. Anche quelli che all’epoca potevano sembrare degli svantaggi – che ne so, l’arretratezza di certe macchine rispetto alle possibilità che vengono offerte oggi – oggi diventano dei vantaggi, nel momento in cui tornavo a riassaporarli e a capire come gestirli. Ecco che quindi la scelta di ripartire da Conform diventava naturale, logica, quasi inevitabile. Ma sia chiara una cosa…
Quale?
Non sono un ingenuo, o un invasato: so benissimo che in tutto questo tempo il mondo è cambiato, anche e soprattutto il “mio” mondo, per quanto riguarda la musica. E questa cosa, al momento di tornare in azione, l’ho subito toccata con mano: oggi ci sono molti più passaggi, molti più interlocutori. All’epoca come funzionava? All’epoca bastava scendere in studio, creare, registrare tutto in un DAT, mandarlo alla distribuzione, la distribuzione vendeva i dischi, se i dischi vendevano bene ti chiamava un agente, e lui ti faceva andare in giro a suonare. Oggi c’è tutto questo, ma c’è anche molto, molto altro: ci sono i social, ci sono i management, ci sono gli uffici stampa e le agenzie di pubbliche relazioni… è tutto così professionale. Ognuno ha un proprio ruolo. All’epoca non ci immaginavamo nemmeno lontanamente che potesse diventare tutto una macchina così complessa e “seria”.
Ho iniziato un lungo processo in cui ho deciso di disimparare un sacco di cose che avevo imparato nel frattempo, tornando ad essere il Gaetano Parisio venticinquenne, quello degli inizi, non quello che qualche anno più tardi aveva iniziato ad imborghesirsi e a viziarsi
No, eh?
Ma figurati. All’epoca si andava nei capannoni rabberciati, si facevano party per massimo trecento persone, e stop, tutti contenti. Poi però ad un certo punto la nostra “cosa” è diventata “clubbing”: ha iniziato a farsi tutto più professionale, sono entrati i soldi, vari interessi, si è capito che da tutto questo ci si poteva guadagnare, non era solo un gioco. E dove c’è la possibilità di guadagno, è fisiologico, iniziano ad esserci elementi che potenzialmente possono avvelenare lo spirito iniziale. E’ così. Attenzione, però: non sto dicendo che prima era meglio.
No?
No. Le cose cambiano, e tu le devi accettare per quello che sono. Ammetto che per me inizialmente è stato abbastanza complicato. Mi sono messo alla prova, per riuscire ad adattarmi alle dinamiche attuali: e per farmi coraggio, mi sono detto che l’animale più forte alla fine è quello più flessibile, un batterio resiste molto più di un leone, così come resiste di più chi si mette a favore di corrente e non contro. Ma qui entra in campo il mio karma: che mi ha sempre detto che il punto non è cosa fai, ma come lo fai. Ho accettato insomma queste nuove dinamiche chiedendo a tutte le persone che collaborano oggi con me di accettarmi per quello che sono. Io non sono un purista, non sono un idealista; ma al tempo stesso sono convinto che qualsiasi cosa tu faccia devi farla con consapevolezza, con una “idea”. Mi dicono che oggi bisogna utilizzare i social? Perfetto, lo farò, ma lo farò a modo mio, scrivendo cose solo quando mi sento di farlo, e non di continuo pur di apparire. Del resto deve essere chiaro che il mio è un profilo specifico: non sono un ragazzino di vent’anni bisognoso di emergere, e anzi, io credo di essere un caso piuttosto particolare, di artisti che dopo una pausa così lunga decidono di tornare sulla scena quanti ce ne sono? E quindi alla mia agenzia PR ho detto: “Preferisco fare interviste selezionate, approfondite, piuttosto che stare lì a fare Story su Instagram a getto continuo… Lo so che perdo in visualizzazioni, lo so, ma io voglio fare così”. Perché appunto: devi esserci sempre una “idea” di fondo in quello che fai, una personalità, qualcosa che è ritagliato sinceramente ed esclusivamente su te stesso. Tutto ciò per un motivo molto semplice: devi sempre sentirti a tuo agio con te stesso. Altrimenti dopo un po’ va tutto a rotoli. O almeno, per me è così.
Hai qualche modo per verificare con te stesso se sei davvero nella direzione giusta?
Sì!
Ovvero?
Il trucco è immaginare se stessi fra dieci anni, e chiedersi: “Quando riguarderò a me stesso così come sono adesso, c’è il rischio che provi dell’imbarazzo?”. Funziona!
Se io mi fossi ributtato in questo calderone seguendo pedissequamente le attitudini che regolano oggi la nostra scena nel suo lato più performativo e legato al successo, che messaggio avrei lanciato? Quanto avrei deluso tutte le persone che mi hanno supportato mentre ero fermo ed anche in questa ripartenza?
Tra l’altro, non solo hai ripreso in mano Conform, ma per rilanciarla hai chiamato dei nomi che ok, io e te sappiamo che sono di qualità eccelsa, ma in molti sono un po’ fuori dal “grande giro”: penso a Rachmad, a Kowalski, a Deetron. In realtà non penso ci sarebbe stato per te nessun problema a coinvolgere colleghi più sulla cresta dell’onda, perché sei circondato davvero da un’aura di culto e di rispetto notevole, lo so per certo.
Ritorniamo al discorso di prima, no? “Scegliere la strada più difficile invece di quella più facile”… (sorride, NdI) Nel momento in cui si ripartiva, l’idea era di riprendere dieci tracce del mio back catalogue e rilavorarle, coinvolgendo un certo tipo di artisti. Proprio il criterio con cui scegliere questi artisti era, già di per sé, una dichiarazione d’intenti: e sono contento che tu l’abbia colta. Effettivamente, ho molte persone che reputo amiche vere che sono delle mega star: sarebbe bastato annunciare una collaborazione con loro per avere subito un grandissimo boost. E come collaborazione, ci sarebbe stata tutta, perché sono persone con cui c’è rispetto ed amicizia profondi. Ma il criterio è stato diverso: per la “Re-Touched Series” ho voluto persone che negli anni, magari anche senza saperlo, sono state per me fonte d’ispirazione. Non sono tutti veterani, eh, alla fine ci sarà anche qualche newcomer, perché si tratta di un criterio intergenerazionale. Ma ho scelto attentamente delle persone di cui ammiro l’attitudine più che i risultati o la fama, questi ultimi sono delle variabili indipendenti. Fare così, era fondamentale. Senti, se io mi fossi ributtato in questo calderone seguendo pedissequamente le attitudini che regolano oggi la nostra scena nel suo lato più performativo e legato al successo, che messaggio avrei lanciato? Quanto avrei deluso tutte le persone che mi hanno supportato mentre ero fermo, ed anche adesso in questa ripartenza? Queste sono le domande da porsi. O ancora, altra domanda: quanto avrei tradito la mia identità, il mio vero me stesso? Se mi fossi rilanciato seguendo le migliori “regole di mercato”, quanto credi che me la sarei sentita di esprimermi liberamente nel momento in cui io e te ci regaliamo questa chiacchierata? Con che coraggio e con che dignità avrei potuto dire certe cose e rivendicare certi valori? E’ bellissimo assaporare la libertà di poter dire quello che pensi, nel momento in cui hai la ragionevole convinzione che le tue azioni siano coerenti rispetto a quello che stai affermando. Aggiungo poi una cosa.
Cioè?
Fin da quando ero giovane, c’è una cosa che è sempre stata di fondamentale importanza per me: il rispetto degli addetti ai lavori. Un complimento da parte di un collega, di qualcuno che conosce veramente questo mondo, vale per me molto di più di migliaia di like, di pubblici adoranti che però sono lì senza in realtà capire bene quello che stai facendo, il perché lo stai facendo e da dove arriva, culturalmente parlando.
Un complimento da parte di un collega, di qualcuno che conosce veramente questo mondo, vale molto di più di migliaia di like, di pubblici adoranti che però sono lì senza in realtà capire bene quello che stai facendo, il perché lo stai facendo e da dove arriva, culturalmente parlando
Però questo mi porta a chiederti come vedi questa faccenda della “business techno”, tanto più che una delle label che simboleggiano questa fase storica, la Drumcode, è stata in tempi non sospetti anche la tua – e con Beyer avrai suonato non so quante volte.
Il mondo è cambiato. E appartiene, giustamente, prima di tutto alle nuove generazioni, che scelgono le loro passioni, scelgono attorno a cosa radunarsi e come farlo. Non hanno idea forse di quello che è stato il passato, vero: ma fino a che punto è colpa loro? Quello che facciamo può essere sia intrattenimento che arte. Sai dove corre il confine? L’arte chiama a sé il concetto di libertà; l’intrattenimento, no. Oggi, molti artisti sfornano hit perché devono portare soldi a casa loro, alle loro strutture, ai loro dipendenti…
…che è un po’ il punto a cui volevo arrivare, perché la differenza rispetto al passato – lo dicevamo anche prima – è che l’ecosistema attorno a techno e house si è fatto molto più composito. Da artista, inizi ad avere la responsabilità della sussistenza di molte persone che lavorano per te.
Sono intrattenitori. Sono professionisti. Sono spesso aziende multimilionarie, che hanno decine di persone sotto di sé – professionisti che è tua responsabilità stipendiare e mettere nelle condizioni di lavorare al meglio – che hanno il compito di massimizzare la portata del tuo successo. Ok. Io comunque incontro ogni tanto qualche dj/producer, gente che sta ai livelli più alti, e li vedo tutti preoccupati da questioni tipo “Eh ma lui ha un posto migliore in line up, non è possibile, io devo prendermi lo slot di chiusura, io devo fare da headliner in un festival più grossi di quello in cui è headliner lui…”. Che dire?
Già, che dire?
Ti stai preoccupando così tanto del giardino di fianco al tuo, da non controllare nemmeno come sta il tuo orto. Ma questo perché, ad un certo punto, hai iniziato a cercare solo scorciatoie. La tua motivazione regina è diventata questa, fare più strada possibile facendo meno fatica possibile. E’ umano: e infatti, è stato l’uomo da inventare le scorciatoie, non altri esseri viventi. Tanto più quando vedi che certi colleghi hanno ottenuto risultati notevoli proprio pretendendo certe attenzioni e certi riguardi, e non facendone a meno: chiaro che tutto questo può condizionare i tuoi comportamenti. Inevitabile. Lo capisco, ma posso solo dire “Attenzione, perché una volta che hai imboccato una certa china più vai avanti più è difficile fermarsi. Però poi più sali in alto velocemente, più sarà pesante e drastica la caduta successiva”. E una volta che cadi, beh, tornare al punto iniziale è il doppio più difficile. C’è però un altro modo di fare le cose: niente scorciatoie, niente impennate mostruose, niente ansia di soldi e privilegi. Per me – e sottolineo per me, perché non voglio dare lezioni a nessuno – è più adatta questa seconda via. Non mi sento migliore di altri, per questo. So solo che sono molto contento di avere una “idea” dietro a tutto ciò che sto facendo ed alle scelte che prendo. Questo mi permette anche, che so, di essere presente sui social, di promuovere quello che faccio: perché so che sono azioni che porto avanti sempre con un certo tipo di consapevolezza, con un certo tipo di progetto. E quel progetto è essere fieri e soddisfatti di quello che si fa. Se poi ciò che si fa piace anche a qualcuno altro, lì fuori, beh, ancora meglio: non posso che esserne grato. Per me è già tantissimo. Per me è già abbastanza.