Non essendo un’assidua frequentatrice delle piste da sci e non essendo fanatica delle vacanze ad alta quota, ci sarebbe stato solo un motivo per il quale sarei stata entusiasta di scalare una montagna e ritrovarmi fra vette innevate e impianti di risalita: un festival. E dato che il Caprices ronzava nelle mie orecchie già da tempo, quest’anno ho deciso che sarebbe stato quello giusto per la mia iniziazione. Così l’11 aprile, valigie in macchina, io e il mio consorte siamo partiti alla volta delle Alpi svizzere per quello che dal 2004 è divenuto un appuntamento imperdibile per gli amanti delle altitudini, degli sport invernali e soprattutto della buona musica.
La nostra idea era quella di prenderci inizialmente del tempo per ambientarci e girovagare per Crans-Montana, ma essendo noi rinomati per il ritardo accumulato ogni qual volta si metta piede fuori casa e non essendoci smentiti nemmeno questa volta, ci siamo ritrovati nel parcheggio del Royal Hotel giusto in tempo per il cocktail déjeunatoir de bienvenue di presentazione dell’evento riservato alla stampa e agli sponsor. Due pesci fuor d’acqua. E mentre ci viene consegnato il press kit con la programmazione completa, iniziamo a guardarci attorno per scambiare qualche battuta coi presenti. In mezzo alla sfilata di camicie bianche, capelli pettinati e scarpini lucidi, notiamo due bizzarri individui. L’occhio mi cade sulle loro sneakers leopardate arroganti e sfacciate, i cappellini e lo zaino in spalla mi mettono immediatamente a mio agio. La scintilla dev’essere scattata anche per loro, tant’è che uno dei due, rivolgendosi a noi fa un apprezzamento sulla cottura della pasta servita dal catering. Si presenta: è Wyan, il tour manager di Loco Dice. Soundwall gli piace (gongoliamo!) e ci confida di seguire assiduamente i nostri podcast. Ci presenta Loco che nel frattempo ci ha raggiunti, ma riusciamo soltanto a scambiare poche parole con lui, prima che un suv lo porti via, alla volta del Modernity, uno dei due eventi che scandiscono le giornate qui al Caprices Festival.
Noi decidiamo di preservarci per la sera e aspettare quindi i set previsti per il Moon. Indossato il badge identificativo, ci accingiamo a raggiungere l’ingresso “Journalistes et Partenaires” della grande struttura bianca eretta nel cuore della città. Varchiamo la soglia ed improvvisamente tutto ci sembra fin troppo bello per essere vero: decisamente ci troviamo nel backstage. Le porte dei camerini riportano il nominativo dell’artista ospitato, leggiamo qualche nome e i battiti del nostro cuore improvvisamente accelerano. Non può essere vero. Ed infatti non lo è: tre membri della security scusandosi infinitamente ci spiegano di aver fatto confusione e che la stampa deve usufruire dell’ingresso e degli spazi dell’area VIP, non dello staff… mannaggia. La pista non è enorme, ma a mezzanotte è già affollata. Alzando lo sguardo verso la consolle non riusciamo a riconoscere chi sia l’artista che si sta esibendo a causa della totale mancanza di luci (e così sarà fino alla fine del set) ma le sonorità non mentono, si tratta di Gaiser, fenomeno della Minus amante dei MIDI Controller, perfetto apripista per quello che è stato l’ispiratore di tutta la sua carriera, Richie Hawtin. Alti e bassi per il dj canadese, ma va sicuramente premiata la perfetta coerenza dei visual minimali di Itaru Yasuda, che si sposano meravigliosamente con l’esecuzione: cellule che si scompongono e si aggregano meccanicamente, che appaiono e scompaiono, che si moltiplicano. Chiusura da applausi, entrano in scena a sorpresa tracce dal groove deep, a tratti esplosive. Il pubblico è estremamente caldo ma l’attesa per gli adeguamenti tecnici e il cambio del ledwall frontale è forse un tantino eccessiva, qualche palpebra cala assopita anche dalla snervante “musichetta” in sottofondo. Tutti attendiamo la venuta di Marco Carola. Quella dell’artista partenopeo è un’apertura da 10 e lode: bombe lanciate dai giradischi a tutto spiano, come “Dres Done (A Sagittariun Re-Dream)” di Nyra, casse plastiche e piene. Purtroppo, però, il livello della performance inizia ad abbassarsi, non sembra esserci una continuità tra le tracce proposte, al punto che si passa da beat più dritti e puliti a ritmi houseggianti, che in comune hanno ben poco. Proporre “Aria” di Ben Grunnell in conclusione può far capire a che deviazioni di percorso il set può essere andato incontro. Nemmeno il tributo alla dance music anni ’90 con il remix di “Pump Up The Volume” ci convince. Torniamo a casa non pienamente appagati ma con grandi aspettative per il giorno successivo.
Se raggiungere il Moon non poteva essere più semplice, arrivare al Modernity appare più come una vera e propria conquista: la funivia è l’unico modo per recarsi a Les Violettes, una terrazza situata nel mezzo di una stazione sciistica, a 2200 metri d’altezza. Qui sorge una costruzione interamente trasparente, dall’area abbastanza ridotta, utilizzata in orario pomeridiano, dalle 12 alle 19. Al nostro arrivo la consolle è governata da Magda, e subito un’aria di festa spensierata e giocosa prende corpo impregnando l’atmosfera, grazie anche a coinvolgenti effetti scenici. Una bassline eccentrica che si accorpa a motivi spumeggianti, suoni che crescono progressivamente, si fanno più metallici, più duri, ci svelano le sue origini somigliando sempre più alle sonorità emerse nello scenario underground di Detroit in cui è cresciuta. Perfino tINI non resiste al richiamo e scende in pista in mezzo a tutti noi, improvvisando un sit down e ballando senza freni. Ricardo Villalobos riceve il testimone dalla dj polacca, e la differenza si nota: i suoi ritmi sciolti e gli andamenti psichedelici sembrano più adatti ad un after piuttosto che ad un pre-party. Ci si sente incastrati in un grande e infinito loop, dove le uniche variazioni sono date dai colpi di fader che sostituiscono tutte le classiche tecniche di missaggio. Muoversi è diventato quasi impossibile, la troppa ressa e il brusio di fondo sempre più evidente ci fanno un po’ perdere l’entusiasmo e preferiamo staccare un po’ la spina in vista della serata impegnativa che ci attende.
Dev’essere stato un gran bel set quello di Gesaffelstein, almeno a quanto pare dal maestoso video finale che propone in rapidissima successione clip di eventi che hanno segnato l’evoluzione dell’uomo, accompagnati da una musica concitante ed energica. L’atmosfera musicale creata sorpassa le usuali aspettative della dancefloor, con un’alternanza eccezionale di suoni violenti e brutali e melodie sublimi e delicate. Noi siamo arrivati troppo tardi e subito Mike Lévy cede il posto al talentuoso Shlomi Aber, la cui formazione permette lui di avere un’ampia visione della musica a 360°, le sue produzioni hanno influenze che derivano dal jazz, dall’acid, dalla minimal e dall’old-school americana. Il suo è un set epocale, ben strutturato e preciso dall’inizio alla fine, con un piacevole crescendo che prepara la strada al veterano dell’acid house, al re indiscusso della techno. Se un Dio esiste, sicuramente è nero e si chiama Carl Cox. Un set ineguagliabile, sia dal punto di vista artistico che tecnico. L’alternanza di generi e l’accostamento di diverse sfumature di sonorità sono pura poesia, amalgamate con un’incredibile coerenza e linearità. La sinergia creata con il suo pubblico e palpabile, noi stessi siamo pervasi da brividi lungo la schiena e smettere di ballare è impossibile. “Good Life” degli Inner City, “Sirocco” di Ian O’Donovan e “The Latin Shake” di Joe Brunning sono solo alcuni dei capolavori sfoggiati dallo “Yes Man”, e le parole ci sembrano superflue quando è la musica a parlare. La ciliegina sulla torta è uno dei più famosi dj contemporanei, il pioniere della Detroit techno per eccellenza, Jeff Mills. Gli oltre 100 set annuali non sembrano stancarlo minimamente, e quando calca il palco è inarrestabile. L’esibizione scaturisce da una dimensione eterea, la figura dell’artista appare quasi sospesa in mezzo al flusso di vibrazioni alienanti create dalle sue stesse mani. Un mago. I progetti a cui ultimamente sta prendendo parte, dalle collaborazioni con la Cinémathèque e la Cité de la Musique di Parigi, alla creazione di alcune soundtrack, influenzano anche il suo modo di suonare. Un’esperienza che tutti dovrebbero provare almeno una volta nella vita.
Il festival sarebbe durato altri sette giorni, ma pensiamo di avere sentito abbastanza. Una bella scorpacciata di eccellente musica che consigliamo a chiunque sia sufficientemente coraggioso da provare “altezze” estreme, in ogni senso.
[Pics: Marc Ducrest 2014, Caprices Festival]