Era il 2004 quando Roma ospitò la Red Bull Music Academy. Negli anni ovviamente spin-off come il Bass Camp non sono mancati, ma di Academy vere e proprie in Italia non sono più tornate. Ci sta, visto che le sedi vengono ruotate a livello mondiale, ma comunque un peccato. Basti pensare che a difendere gli onori di casa quell’anno ci furono: Alexander Robotnick, Claudio Coccoluto, Claudio Rispoli, Claudio Simonetti, Daniele Baldelli e Volcov. Una grande fetta di Made in Italy a quattro quarti di nobiltà era lì, egregiamente rappresentato. Ogni artista con il proprio background ha arricchito nel tempo tutto il movimento, facendo capire che noialtri italiani la musica oltre a saperla fare l’abbiamo anche esportata, diventando punto di riferimento per molti stranieri che da sempre ci ammirano, invidiandoci anche un pò. Per fortuna a distanza di anni il pubblico continua ad apprezzare: quel sound ormai viaggia da solo su un sentiero tutto privilegiato. Succede però a volte che le sovrastrutture ti relegano in un genere, i media agiscono di conseguenza e l’avversario da battere è proprio questa gigantesca massa fatta per lo più da omologazione e scarsa profondità – o comunque scarsa propensione ad andare sotto la superficie più immediata. Se pensiamo infatti a tutto quello che è successo nel tempo ad Alexander Robotnick, il cerchio si chiude da sé. All’anagrafe Maurizio Dami, con una consistente ammirazione per l’India, la new wave e abbondanti dosi di synth, la sua è sempre stata una figura che per molti risiede nella fetta dell’Italo Disco, ma fidatevi – la storia non è andata proprio così, non si può riassumere semplicemente così.
Una frase ad effetto è stata messa come titolo nel tuo primo album: “Ce n’est q’un début” – tradotto, “Non è che l’inizio”. Possiamo stare tutti tranquilli che quel “debutto” non passerà mai e la cosiddetta maturità artista spetta solo a chi si sente sazio e appagato del suo passato?
Quella frase per me aveva più di un significato: quello originario, del Maggio francese, visto che venivo dagli anni ’70 e avevo 18 anni nel ’68; poi aveva il senso di un “nuovo inizio”. Devi capire che per molti della mia generazione gli anni ’80 arrivarono come un sollievo, una luce dopo i disastri politici ed esistenziali della fine del decennio precedente. Improvvisamente c’era una gran voglia di fare e la mia città, Firenze, divenne un fulcro di attività creative. Era cambiata l’ottica: vedevamo il mondo come un’opportunità e non più come qualcosa di ostile. Ci illudevamo, naturalmente… L’ostilità tornava sempre fuori; ma perlomeno non ci frenavamo da soli.
“Firenze sogna” è il secondo episodio dell’apprezzatissimo documentario che prende il nome di “Crollo nervoso”, nel quale tutta la scena new wave degli ’80 viene passata al setaccio con interviste e testimonianze dell’epoca. Da toscano, come valuti tutto quel periodo musicale ben preciso dove molto di quell’underground ruotava intorno a Firenze ?
Nei primi anni ’80 a Firenze quando ci si incontrava la sera in piazza S.Spirito si iniziava a chiacchierare sempre con la stessa domanda: “Cosa stai facendo?” C’era a giro uno spettro di attività molto ampio che andava dal teatro alla musica, al design alla moda alla grafica al fumetto. C’era un movimento insomma, che era però molto diverso da quello a cui eravamo abituati negli anni ’70. Era un “movimento non-movimento”, come si direbbe oggi. C’era anche molta attenzione a ciò che succedeva nel mondo, a cominciare dal nord Europa e gli Stati Uniti, ma anche altri paesi. Avevamo messo da parte quel provincialismo di tipo “sindacale” in cui l’estero era più che altro un fatto letterario. Improvvisamente, sentivamo una sintonia creativa con realtà lontane da noi geograficamente ma così vicine nei sentimenti e nello stile espressivo. Inoltre c’era uno scambio di opinioni e di gusti molto trasversale. Chi si interessava di musica per esempio non facevo solo quello, ma seguiva un po’ tutto ciò che succedeva nel “movimento non-movimento”. E così il Teatro dei Magazzini influenzava band musicali come i Neon o i Pankow, e nascevano gruppi multimediali come I Giovanotti Mondani Meccanici. Questo erano fondamentalmente gli anni ’80 a Firenze. Quello che poi è uscito da quel groviglio di attività, è solo una piccola parte di ciò che è successo.
Poi arriva per te il successo di “Problèmes D’Amour”. Credo che tutti abbiano in borsa una copia di quel disco: rimarrà per sempre un cimelio, dove nel momento di stasi di una serata basta mettere quel vinile e si riesce sempre a tirare su qualcosa di inaspettato.
E’ curioso come in contrasto con le note un po’ cupe o tristanzuole della musica che ascoltavamo (e alcuni di noi facevano…), ci fosse in realtà un clima di allegria ed ottimismo. Questo ottimismo venne poi messo a dura prova dalle necessità della vita: le risorse erano quelle che erano e la scala del successo molto dura e parecchio ambigua. E’ qui che si inserisce “Problèmes d’Amour”. La storia è che i fratelli Bigazzi della Materiali Sonori avevano da poco trasformato la loro label da centro di cultura “impegnata” (come poi in seguito è tornata ad essere) a label d’avanguardia, gettandosi nella mischia della new wave fiorentina. Avevano già pubblicato gli Avida, la mia band dell’epoca. Un giorno, incontrandomi, mi dissero che si poteva fare un po’ di quattrini con la discomusic. Nessuno si vergognava dell’argomento quattrini: era una necessità. Quindi andai nel mio studiolo e buttai giù l’ossatura di “Problèmes”, il giro di basso e gli accordi. Poi scrissi sulla cassettina che avevo registrato: “Bomba Disco”. Ma naturalmente non era disco, soprattutto non era Italo Disco. Era quello che io ero all’epoca: cioè un po’ punk, un po’ romantico e un gran ballerino (ballare mi è sempre piaciuto fin da piccolo). Dentro c’era di tutto, dalla new wave alla canzone anni ’60, dalla Grace Jones di “Night Clubbing” fino al funky. A quell’epoca ancora studiavo musica: nel brano ci sono un paio di modulazioni armoniche che quando le risento adesso penso “Però… niente male”. “Problèmes” quindi piacque soprattutto a quelli a cui piacevano i Tom Tom Club o i New Order piuttosto che l’Italo Disco. Fu quindi un successo limitato, però duraturo. “Problèmes” rientra in quei brani che sono sì nel loro tempo ma, in qualche modo, ne sono indipendenti. Per questo hanno più probabilità di durare.
C’è poi nella tua personalità artistica tutto un altro settore, forse poco conosciuto ai più, che riguarda l’India, strizzando l’occhio alla world music. Come nasce e soprattutto qual è stata la scintilla che ti è scattata dentro, facendoti percorrere migliaia di chilometri pur di toccare con mano quelle sonorità ?
In India ho cominciato ad andarci nella seconda metà degli anni ’80 e sono rimasto, beh, flashato. E’ uno di quei posti che o bene-bene, o male-male… non so se mi spiego. L’India mi ha aperto alla musica del mondo: ho cominciato a collezionare cassette (ne ho bauli), soprattutto “Temple Music” indiana fra le mie preferite (a scanso di equivoci, non sono religioso), ma anche musica centro-africana, o araba (soprattutto raï algerino). Era l’epoca in cui si credeva al dialogo fra le culture: la musica come messaggera di unione, di dialogo. Le cose poi purtroppo sono andate diversamente, e io ho abbandonato il campo. Ma ancora oggi se riascolto I brani di “The Third Planet” e “Masala” le mie band multietniche degli anni novanta, rimango commosso per la freschezza e la profondità di quei progetti.
Credo ci sia stato un anno cruciale nella tua carriera: il 2003. Una rinascita artista, un nuovo debutto, un fuoco che riprende a bruciare. È forse tutto quel periodo musicale a cavallo tra i ’90 e i 2000 che poco ti prendeva in termini di sonorità ?
Io uso dire che negli anni ’90 non sono mai andato in discoteca. In realtà è vero solo in parte, qualche tentativo l’ho fatto, ma quel che non mi piaceva era quella massificazione della musica dance. A me piaceva ballare nei club: anche al Tenax, che benché grande era comunque un club. Le masse stipate e quel martello ossessivo non mi mettevano però bene. Quindi per continuare a ballare io e i miei amici organizzavamo feste private (vere feste, non quelle dove si paga…), dove io facevo delle cassette che ci facevano ballare fino a mattina. Mettevo la disco anni 70 e le cose migliori del momento la new beat, la prima house e poi dopo i Massive Attack gli Orb, l’acid jazz. Sì ho continuato a seguire la musica negli anni 90, perfino la prima trance (notevole), ma la discoteca no please. E come attività musicale facevo colonne sonore, allestimenti multimediali e le mie band multi-etniche. Più o meno si andava avanti così. Veniamo al nuovo millennio, in cui la world music non era più di moda e io ero piuttosto al verde. La storiella è che un promoter francese mi spedì un’e-mail chiedendomi se ancora facevo il DJ. Io ho risposto sì (non l’avevo mai fatto), e così è cominciato tutto. Sono piaciuto e hanno continuato a chiamarmi un po’ da tutto il mondo… e ancora lo fanno. Questo per farla in breve. Ma è importante dire che l’esperienza da dj è stata per me davvero entusiasmante: io amo cimentarmi con qualcosa di nuovo, qualcosa da imparare, in cui trovare il mio stile. Mi diverto tantissimo. Ho avuto poi la fortuna di cominciare in un periodo in cui nell’aria c’era l’electro-clash, l’electro-house, il revival dell’italo disco – ma quella bella, quella che non conoscevo, tutta roba che però mi suonava familiare e in cui mi era naturale inserirmi. Ho avuto il buon senso di non fare il “grosso”, ho ascoltato i dj che mi piacevano (il primo è stato The Hacker) e ho sperimentato il mio modo di farlo, più da musicista che da puro dj. Mi sono davvero divertito. Adesso, onestamente, comincio ad essere un po’ stanco.
“Italo Disco Legacy”, documentario realizzato dal ferratissimo Pietro Anton, spiega molto bene tutto quel periodo musicale, e la cosa che salta fuori durante una tua intervista è proprio questa: quasi estraneità a quelle sonorità, almeno in partenza. Ti scoccia essere comunque ricordato solo ed esclusivamente per quel determinato genere, senza in effetti poi conoscere tutta la tua carriera artistica?
“Problèmes” effettivamente c’entra poco con l’italo disco; d’altra parte gli altri ti vedono come gli pare, inutile prendersela. Ma qualcosa che mi unisce ad una certa otalo c’è: l’ironia, il non prendersi sul serio, il divertimento che traspare dai lavori, il che non è poco. A volte l’ironia dell’italo era solo nei nomi, proverbiale Dan Harrow in tal senso; a volte era sottile, altre una voluta pacchianeria, spesso involontaria. Comunque, a quello spirito mi sento tutto sommato vicino.
Sull’italo disco poi si potrebbe aprire un discorso infinito. Primo perché oggi va di moda, secondo perché all’epoca proprio tutti si buttarono su quelle sonorità tra soubrette e uomini di spettacolo. Sinceramente, quali sono gli artisti dell’epoca che hai poi riscoperto con il tempo e ai quali ti senti più legato ?
Francamente quando mi chiamano a suonare l’italo suono forse una trentina di tracce, fai quaranta, se il pubblico è italo-sfegatato. Il resto, ‘gna fo. Quelle voci mi uccidono, tutto quel dolciastro mi soffoca. Detto questo, mi sono veramente innamorato delle tracce che suono e oggi ho un rispetto immenso per produttori come Rago & Farina (ancora in gamba, fra l’altro). Potrà sembrare strano, ma nell’italo disco ci sono delle perle che non riescono ad essere dimenticate e per la maggior parte non erano i brani di maggior successo all’epoca. Eh sì, il tempo fa giustizia. Vuoi qualche titolo? Charlie, “Spacer Woman”; Expansive, “Live With You”; My Mine, “Hypnotic Tango”; Koto, “Jabdah”; Fun Fun, “Happy Station”; Doctor’s Cat, “Feel The Drive”.
L’ep “Parade” realizzato con Cristalli Liquidi, il progetto di Bottin, così come la rivisitazione del brano di Lucio Battisti “Fatti un pianto”, sembrano quasi avere un marchio ben preciso: reinterpretare suoni passati dandogli una nuova chiave armonica.
Mi interessa questa rivisitazione della musica italiana portata avanti da Bottin. La trovo una strada promettente. Ho collaborato con lui a brani di Cristalli Liquidi, ed è nata anche un’amicizia. Il tempo comunque è una bella ossessione: non c’è mai, è troppo poco.
Altro grande progetto che porti avanti è The Analog Session, una sorta di jam elettronica tra synth e modulari. Progetto che condividi con Ludus Pinsky, sfociato poi nell’uscita dell’EP nel 2014 dall’omonimo titolo. Come nasce questo progetto?
Considero The Analog Session il progetto più prestigioso fra quelli che ho affrontato, quello senza compromessi. Un’esplorazione coerente nel suono analogico, una totale libertà improvvisativa. The Analog Session ha due anime.: una esplorativa della sintesi analogica, delle sue potenzialità espressive; l’altra anima è invece quella dell’improvvisazione, dell’uso dei synths come strumenti musicali. Improvvisazione melodica nel mio caso, e timbrico-armonica per Ludus Pinsky. Da queste improvvisazioni nascono i nostri album. Il prossimo, in uscita a fine febbraio, si intitola “When Machines Get Funky” e il titolo parla da solo.
Il tempo di oggi corre in fretta, consuma e dimentica senza poi fare tanti sconti. La fortuna è quella che se si fanno lavori con lo spirito giusto anche a distanza di tempo qualcuno in qualunque parte del mondo apprezzerà sempre. Ci sono progetti che stai portando avanti e soprattutto, dove potremmo vederti all’opera dietro la console tra Italia ed estero ?
Come forse sai ho 68 anni. Il 2019 sarà l’ultimo anno in cui vado a giro a suonare. Se lo farò nel 2020, sarà solo per occasioni speciali. In questo momento mi sto dedicando di più alla mia label: Hot Elephant Music. Fino a poco tempo fa l’ho usata solo per pubblicare la mia musica, adesso invece sto pubblicando altri artisti. Le aree di collaborazione sono Firenze (Tulioxi, Lore J) e naturalmente l’India (la raccolta “Indian TechXpress” e “KolSlaw” di Hybrid Protokol le ultime uscite). E poi Robotnick naturalmente: la voglia di fare brani non riesce a passarmi
Ci salutiamo così, un brano per ogni genere sovra citato. Vale a dire, un pezzo new wave, uno italo ed un altro world che nel tempo ti hanno accompagnato e di cui proprio non puoi farne a meno.
Suicide, “Touch Me”. Charlie, “Spacer Woman”. Hariprasad Chaurasia, “Rag Lalit”.