Fondata nel 2014, la Sunlover Records si dichiara un’etichetta “specializzata in synthwave, dreamwave, space disco e synthpop con uno speciale italo touch”. Tenendo un piede nel presente ed uno negli anni Ottanta, ricrea le atmosfere del “decennio di plastica” che fu particolarmente fortunato per la dance italiana. In poco più di un biennio pubblica EP ed album di artisti come Lachi James, A Space Love Adventure, Superflight, Javarnanda, Shio-Z, Tape Loader, Batch Sound, Ben Businovski e Chromatique, oltre a varie compilation che stuzzicano l’attenzione e la curiosità di chi continua ad essere affascinato dalle atmosfere e dai suoni che segnarono indelebilmente un’intera generazione. Ne discutiamo con Vincenzo Salvia, Alessandro aka Overglow, Andy Fox ed Abobo.
Come, quando e perché nasce la Sunlover Records?
Ale: Sunlover Records nasce dal bisogno comune di quattro artisti italiani attivi nella scena retro/synthwave di darsi voce all’interno del panorama nostrano. Sentivamo che qualcosa stesse sbocciando a livello mondiale ma in Italia, stranamente, la cosa ancora sopiva. Abbiamo deciso così di mettere su un “qualcosa” che potesse soddisfare il bisogno di neon nello Stivale. Un’etichetta che sa più di collettivo, intenta a spingere release valide e compilation a tema retro synth in Italia e all’estero. Nata un po’ per scherzo, alla fine siamo riusciti a diventare quasi “qualcuno” all’interno della scena. Abbiamo avuto anche due nuove new entry nell’organico, Abobo ed Andy Fox, a dimostrare che chi passa da qui può benissimo rimanere visti gli interessi in comune.
Abobo: Da piccolo, dai 7 ai 14 anni, ho studiato pianoforte, musica classica. L’estate spesso andavo nel paese natale di mia mamma dove mio nonno era organista della chiesa, e in occasione di un paio di matrimoni mi fu chiesto di suonare le Ave Maria di Schubert e di Gounod sull’antico organo a canne della chiesa. Dei giorni passati a fare le prove ricordo il fascino di quel “sintetizzatore ante litteram” e dei suoi pomelli che se tirati verso l’esterno ne modulavano il suono. Credo che lì la mia passione per i sintetizzatori fosse al suo stadio germinale. Per quanto riguarda il mio bagaglio musicale, è difficile definirlo. La scorsa estate ero al concerto più emozionante della mia vita, quello di Bruce Springsteen al Circo Massimo. Il suo album “Born In The U.S.A.” ce l’ho su vinile, CD e formato digitale giusto per essere sicuro di poterlo ascoltare sempre ed ovunque, ma la mia è una collezione musicale che a molti farebbe storcere il naso: Dokken, The Jets, Keith Emerson, Chris Rea, Rod Stewart, Phil Collins, Roxette, Madonna, Nick Kamen, Daryl Hall & John Oates, Ennio Morricone, John Barry, Yarbrough & Peoples, Giorgio Moroder, Rick Springfield, Gazebo, Iron Maiden, Evelyn “Champagne” King, Vasco Rossi, Michael Jackson… insomma mi piace ascoltare davvero un po’ di tutto e, come si potrebbe intuire, sono più un fan degli anni Ottanta e del loro “mood” che di uno o più artisti in particolare. Come musicista mi sono mosso nell’ambiente g-funk italiano ed internazionale per un po’ di anni ma con un altro nickname. Ai tempi il movimento synthwave non esisteva e il g-funk era il genere musicale che più si avvicinava alle sonorità degli anni Ottanta (prendeva spunto dal p-funk di Parliament/Funkadelic e George Clinton, e da gruppi come Zapp & Roger ed Ohio Players). Nel 2011 il g-funk era ormai finito ed io, come molti altri artisti, a distanza di un ventennio dalla fine degli anni Ottanta, ho sentito il bisogno di mettere in musica il senso di nostalgia verso quella decade. Se le mie composizioni non fossero rimaste nello studio per anni sarei stato uno dei pionieri della synthwave. Purtroppo talvolta serve anche un po’ di supporto e fiducia da parte di chi ti sta vicino. Nel 2015 ho incontrato Veronica, la mia attuale fidanzata, che ascolta la mia musica e che mi ha quasi costretto a cercare contatti per pubblicarla. Nello stesso periodo ho iniziato ad interessarmi al movimento synthwave e nel 2016 tramite Facebook ho conosciuto Vincenzo, che insieme agli altri in Sunlover, mi ha offerto l’opportunità di pubblicare il mio primo EP, “Addictions”. Oggi, con due EP all’attivo, qualche singolo e collaborazione, sto lavorando al mio primo album.
Vincenzo: Sono cresciuto tra le cassettine scritte a penna dei miei genitori, rompendo le sedie di casa cercando di suonare “In The Air Tonight” di Phil Collins coi cucchiai di legno. A 10 anni circa frequentai un corso di piano ma poi decisi di continuare come autodidatta. A 14 anni cominciai a suonare chitarra, abbandonando lentamente la musica elettronica e buttandomi sul rock e metal, ma ricordo ancora perfettamente quella mattina di febbraio: le scuole erano chiuse causa neve, rimasi a casa, avevo voglia di sperimentare qualcosa di assolutamente nuovo e cominciai a scrivere musica mettendo insieme un po’ di darkwave di impronta tedesca con suoni anni Ottanta. Era il lontano 2004 e quel giorno nacque ciò che sono oggi. Quel progetto, che chiamai “Schatten”, definiva l’identità del mio stile attuale, i chorus aperti e l’orecchiabilità, la composizione “facile”, diretta. Nel 2012 invece è uscito “Voyage”, il mio primo EP firmato col nome anagrafico e che ha sancito ufficialmente l’ingresso nel mondo della synthwave. Nel contempo ho cominciato a lavorare saltuariamente con Mediaset e Soundiva e a qualche piccola colonna sonora come quella per il film “Quando il sole sorgerà” con Lorenzo Flaherty. Tuttora affianco produzioni italo / synthwave al 100% a qualche lavoro più sinfonico o minimal piano per documentari e spot pubblicitari, o loop packs come quelli che sto realizzando per la Prime Loops.
Andy: Sono un ex-bambino degli anni Ottanta che giocava coi Lego nel pomeriggio tenendo la radio accesa. Credo di aver assorbito tutto il sound dell’epoca proprio dalla radio, è stato quello che mi ha battezzato. Il mio approccio con la musica suonata è stato con una Bontempi System 5. Ho studiato qualche anno musica, poi a 15 anni ho fatto il batterista in un gruppo con gli amici, facevamo rock italiano e straniero, ma credo che ormai la frittata fosse fatta, ero capace di suonare solo in 4/4. Ho fatto il “tour dei generi musicali” saltando di palo in frasca, forse ho costruito l’orecchio ma il genere dance mi è sempre appartenuto. Ora faccio ancora musica e metto i dischi in discoteca. Quando ne faccio uno mio, uso i suoni anni Ottanta della italo che mi ha segnato. Immagino sempre di avere davanti una pista di gente sudata che balla, tipo la scena in “Cercasi Susan disperatamente” dove Madonna (Susan) balla in un club con Gary, sulle note di “Into The Groove”.
Cosa hanno gli anni Ottanta di tanto speciale, visto che continuano a rappresentare motivo di ispirazione per un numero incalcolabile di musicisti e compositori (ma anche grafici e stilisti) in tutto il mondo?
Ale: Ho una teoria molto personale. Abbiamo due dimensioni come esseri umani, la realtà e il sogno. Per quanto possiamo evolverci, anche fra 1000 anni continueremo a sognare, e i sogni spesso sono “fatti male”, inspiegabili, assurdi … esattamente come erano i mondi della fantascienza di quel periodo. Quello che non era logico o chiaro veniva compensato dall’immaginazione. Oggi, abituati a device futuristici che sognavamo anni fa, non sappiamo più dove cercare quel fattore di surrealismo/sogno. Anche i film di fantascienza ormai sono quasi film tecnici, tutto è credibile e curato nel minimo dettaglio. Ma l’uomo, per quanto evoluto, ha bisogno di nutrire il suo lato onirico, e secondo me gli anni Ottanta sono un periodo ricchissimo da questo punto di vista. È un po’ come se si fuggisse dal razionalismo moderno per rifugiarsi in un’epoca molto più bizzarra e stimolante.
In base a quale criterio scegliete gli artisti o selezionate musica per la vostra etichetta?
Vincenzo: L’originalità ma allo stesso tempo la fedeltà alle atmosfere 80s. Siamo attratti da quegli artisti che si staccano dalle canoniche atmosfere synthwave e che riescono, anche con produzioni più moderne, a farci ricordare i mitici anni Ottanta.
Avete dei punti di riferimento o comunque qualcuno a cui vi ispirate?
Ale: Guido Nicheli.
L’impatto grafico della Sunlover Records è tipicamente synthwave con colori fluo in grande evidenza, ma si riscontra anche una forte componente italo che dona al tutto un carattere più disimpegnato, canzonatorio ed ironico. Brani come “Domenica” o “Lungomare” di Vincenzo Salvia o la recente raccolta “Sole, Whisky E Sei In Compilation” suonano come autentici tributi sia alla discografia nostrana di allora (coi relativi limiti), sia ai cinepanettoni diretti dai Vanzina. C’è quindi un senso di identità culturale nella vostra espressione artistica? A differenza di altri che cercano di perdere del tutto la propria “italianità” (soprattutto in ambito techno), credo che voi facciate l’esatto contrario. Perché salvaguardate l’italo touch?
Abobo: Penso di poter parlare a nome di tutti dicendo che ci ispiriamo ad un periodo in cui l’Italia ha avuto da dire la sua in ambito artistico, sia nella musica che nel cinema. Infatti, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, per gli artisti italiani iniziò un percorso di “internazionalizzazione” che ebbe il suo culmine proprio negli anni Ottanta con Laura Branigan che fece una cover di “Self Control” di Raf, o un regista come George Romero che era fan sfegatato delle opere di Dario Argento e Lucio Fulci, giusto per citare un paio di esempi lampanti. Negli anni Ottanta per la discografia italiana erano ancora lontane le moderne logiche di mercato per le quali si testa prima il prodotto sul campo tramite un reality, poi se funziona lo si spreme e quando si esaurisce lo si lascia lì a marcire. Giravano più soldi, si investiva di più ed ovviamente si rischiava anche di più, i prodotti erano freschi ed innovativi. Oggi l’innovazione la importiamo o peggio la scimmiottiamo, le uscite più fresche a livello commerciale sono delle copie neomelodiche non ufficiali dei successi internazionali che arrivano prevalentemente dai paesi anglosassoni o dell’est asiatico. Quindi sì, senz’altro c’è un forte senso di identità culturale in Sunlover Records, in riferimento ad un’Italia ricordata in un’epoca in cui, seppur con limiti e contraddizioni, la nazione era leader in ambito artistico, sapeva porsi al timone sfornando movimenti e sottoculture (i Paninari li avevamo solo qui eh!) ed era sicuramente a livello sociale e culturale molto più colorata, e come ha detto prima Ale, bizzarra e stimolante. La maggior parte di noi è cresciuta in quell’ambiente ed ha respirato quell’atmosfera. Oggi la italo disco la vogliono fare in Russia, negli Stati Uniti e un po’ ovunque, alcuni artisti sono anche molto bravi tuttavia noi siamo quelli che da bambini ascoltavano Gazebo, Den Harrow e Mike Francis al juke box al mare o in sala giochi, quindi penso che possiamo riuscire ad interpretare in maniera più completa un certo suono, attraverso il filtro della nostalgia e gli occhi di chi c’era. In ogni caso per la maggior parte di noi l’approccio italo disco si limita ad un certo numero di release e di situazioni, ad esempio io il più delle volte strizzo l’occhio alla synthwave pura, al funk elettronico degli anni Ottanta o al pop, cercando di utilizzare degli elementi italo a mio favore, piuttosto che come dei paletti che potrebbero limitare il lavoro.
Chi cura l’aspetto grafico della Sunlover Records? Quanto è importante l’artwork per musica che oggi viaggia quasi esclusivamente sul web?
Ale: Del lato grafico me ne occupo quasi esclusivamente io. Anni fa ho aperto una pagina che poi è diventata un vero alter ego ossia Overglow, con cui realizzo grafiche 80s. Che sia web o fisico, credo che l’artwork resti di fondamentale importanza, soprattutto in una scena composta perlopiù da bedroom producer e con una mole enorme di release simili. È il biglietto da visita in mezzo a un mare di dischi, quel colpo d’occhio che ti fa smettere di scrollare la bacheca di Facebook, quella thumbnail che ti spinge a cliccare play su YouTube. Con un artwork mediocre sicuramente ti aspetta un lavoro di promozione molto più serrato e faticoso. Ci sono stati dischi fantastici nella scena che mi sono perso perché l’artwork non era un granché.
Fate tutto in modalità do it yourself oppure vi poggiate a qualche struttura che cura il publishing e/o licenze in territori esteri?
Vincenzo: Tutto è gestito in maniera autonoma dagli artisti sotto nostra consulenza. Il do it yourself è fondamentale per chi muove i primi passi come musicista, le spese si abbattono e, grazie ai distributori digitali, si riesce a diffondere la musica con estrema facilità. Quello che conta è la comunicazione sui social e come il pubblico ti accoglie. Direi che parte tutto da lì e si cresce di conseguenza. Una volta targetizzato il pubblico, l’album si muove da solo se è valido e se c’è un buon lavoro di comunicazione dietro. Ciò avviene anche grazie alla scena che supporta in maniera egregia gli artisti, che siano emergenti o meno.
Il vostro catalogo è prevalentemente disponibile in formato digitale, ma tra 2015 e 2016 avete sperimentato anche la cassetta, per “Videomemories” degli AlterSun, e il 12″, per “Tempus Fugit” di Andy Fox. Prevedete di tornare ad investire risorse nel formato fisico in un prossimo futuro?
Andy: Sicuramente. Ora il mercato sta chiedendo a gran voce un ritorno al supporto fisico. Le vendite degli AlterSun e del mio EP sono andate molto bene. Il formato cassetta risulta un nuovo-vecchio media
simpatico, economico ed anche pratico per godersi un intero album tutto d’un fiato. Per quel che riguarda il vinile invece, noto che il suo suono “diverso” risulta particolarmente accattivante anche per le nuove generazioni. Molti giovani stanno abbracciando con grande entusiasmo il ritorno del 12″. Ho letto che le vendite di dischi sono tornate a crescere raggiungendo i livelli di 15 anni fa, segnando il record lo scorso Natale nel Regno Unito, dove il totale dei soldi spesi per gli acquisti in dischi ha superato il totale del denaro speso in musica digitale. Credo che la gente acquisti il disco e senta di spendere soldi per qualcosa di buono, quel qualcosa che un giorno potrà ripescare facilmente dallo scaffale e riascoltare. Con Sunlover gli artisti hanno carta bianca nello scegliere se intraprendere la strada del digital-only o del supporto fisico.
Talvolta il formato può essere determinante per il successo di un artista. Un EP o un album infatti può sortire risultati completamente diversi se solcato su vinile. Come vi ponete in merito al collegamento tra un certo tipo di musica e il supporto fisico? Pensate sia indispensabile?
Andy: Alcuni generi sono indubbiamente legati al media di rilascio. Se parliamo di musica prettamente EDM ed escludiamo i grandi nomi che vanno verso il pop, le release su vinile si possono contare sulle dita di una mano. Altri generi invece sono più legati al disco fisico, come la house e derivati, suonati da DJ. Penso poi al rock e a qualche etichetta hip hop. Sì, forse il media può avere un impatto sulla visibilità della release ma ciò che veramente fa la differenza è il contenuto. La buona musica resta tale indipendentemente dal formato.
Utilizzate Bandcamp come piattaforma per vendere la vostra musica. Perché avete escluso i più canonici portali come Beatport?
Vincenzo: Bandcamp va molto forte nella scena synthwave. Molti artisti scelgono anche raccoglitori come CD Baby o Distrokid che distribuiscono su Spotify, iTunes e sui maggiori store digitali. Spotify è una gran forza e lo ritengo alla pari di Bandcamp come possibilità di guadagni ma con più potenzialità di essere scoperti. Sono finito con altri colleghi nella playlist ufficiale di Spotify “RetroWave / Outrun” e ciò la dice lunga su come questo genere stia prendendo sempre più piede. Spotify inoltre è molto “easy” perché dà la possibilità di ascoltare senza alcun investimento da parte del pubblico che è lì alla scoperta, grazie al free streaming che offre. Beatport non ha una gran forza nel nostro genere, lo trovo molto più orientato sulla techno, house e dance elettronica in generale.
Qual è il bestseller del catalogo?
Vincenzo: La compilation “Italo Disco Is Back” è senza dubbio la release digitale più venduta, insieme a “Tempus Fugit” di Andy Fox (vinile + digitale). Questo è un segnale fortissimo che ci fa capire che l’italo vende ancora bene, anche ad un target fresco come quello synthwave. È un po’ una riscoperta per molti, anche per noi italiani.
C’è qualche artista che vi piacerebbe ospitare su Sunlover Records?
Ale: Sarebbe bello collaborare con una vera star del passato, ma in maniera giovane e moderna.
A cosa state lavorando attualmente?
Vincenzo: Un paio di artisti stanno completando i loro album da pubblicare prossimamente. Vorremmo anche iniziare una serie costante di compilation a tema, continuando la scia di “Sole, Whisky E Sei In Compilation”. Le compilation sono una bella trovata per farsi conoscere un po’ da tutti, perché ogni artista va ad incrociare il fanbase degli altri inclusi nella release. La nostra cantante russa Daria Danatelli è stata accolta benissimo dal pubblico, tanto da avere già più di qualche collaborazione all’attivo.
Synthwave (e derivati) stanno prendendo piede anche in Italia? Ipotizzereste un possibile exploit mainstream o è un filone troppo ricercato per essere supportato dalle radio ormai abituate a generi standardizzati?
Ale: Questa è una cosa che proprio non riesco a capire. Proprio qui dove è nata l’italo disco, in un momento di revival così importante a livello mondiale, nessuna delle vecchie glorie riesce in nessun modo ad amplificare la deflagrazione. Nessun produttore dell’epoca che dica “oh ma ‘sti ragazzi sono forti, magari si può tirare su anche qualche lira”. Senza fare nomi, c’è chi continua a proporre il suo repertorio (magari “riaggiornato” con quelle brutte basi stile dance anni 2000) alle sagre dell’acquacotta, chi pubblica dischi con copertine di una bruttezza al limite della denuncia penale e chi ancora si dedica ad antichi rancori tra colleghi. Nel frattempo ragazzini di tutto il mondo fanno quello che fanno loro ma meglio. Ovviamente non hanno un grande supporto. Sarebbe bello se cambiasse l’aria ma secondo me il synthwave è un genere stronzo: si nutre di nostalgia, quindi il quindicenne che non l’ha vissuta non potrà mai sentirsi coinvolto come il trentenne, e i vecchi, come dicevo prima, sono impegnati ancora a fare dischi pensando che qualcuno li ascolti, invece di fare largo ai giovani, magari seguendoli e stringendo alleanze.
Come immaginate Sunlover Records tra cinque anni?
Ale: O benissimo o malissimo. Lo facciamo solo per passione quindi dubito che potremmo continuare per inerzia.