Le illustrazioni delle nostre Battles sono firmate da Enrico Motti
Già, stavolta lo scontro è tra due pesi massimi. Ma non secondo parametri di valutazione tipo innovazione o originalità. Macché, quella è roba ormai abbondantemente superata nell’analisi musicale moderna: questi sono gli anni del gossip e del lifestyle, dell’hype ingiustificato e delle prime pagine sui dissing. Anni per web-degenerati, insomma. Anni demmerda, dice qualcuno. Ci siamo dentro fino al collo, questo campionato mondiale di plastica è ormai arrivato alle fasi conclusive e la finale per questa prima metà del decennio è già decisa. Da una parte l’unto del signore, dall’altra l’unto dai robot. Gesù contro Barabba, per il titolo di nome più strombazzato, mitizzato, incensato degli ultimi anni.
Certo, fosse stata dieci anni fa questa sfida avrebbe avuto un sapore completamente diverso. Di questi tempi, dieci anni fa, West pubblicava quello che per molti è il suo miglior album, “The College Dropout”, e Pharrell stava all’apice del successo coi N.E.R.D. altezza “Fly Or Die”. In heavy rotation c’erano “Slow Jamz” da una parte e “She Wants To Move” dall’altra. Ci si poteva confrontare sulla sostanza, insomma. Anche sulla faccia da schiaffi, a guardare dai video, ma prima di tutto sulla sostanza. Erano altri tempi però. Ok, oggi forse si potrebbe parlare di “Yeezus” e “G I R L“, un disco buio che vuole spiccare come faro dell’era trap contro un disco di luminoso riflesso pop, due modi opposti di vivere il nostro tempo, due modi uguali e diversi di opporsi all’omologazione. Si potrebbe mettere uno accanto all’altro il mood eternamente depresso del primo con l’innato buonumore del secondo (quando hanno lavorato insieme ha vinto quest’ultimo, per inciso). Ma non è questo il punto: oggi Kanye e Pharrell li si mette a confronto in quanto marchi di popolarità. Prima che produttori, sono qualcosa come delle indicazioni stradali per l’ascolto di massa. Garanzie non tanto per la qualità musicale, ma prima di tutto generatori automatici di aspettative. Un po’ come la raccomandazione dei dentisti italiani sui tubetti del dentifricio: tu vedi il bollino e lo compri, o quantomeno clicchi play. Senza un vero perché. Forse giusto per sentirsi più parte di questo mondo fatto di mode e status symbol.
Cosa li ha portati ad essere ciò che sono oggi è a grandi linee piuttosto facile da identificare. Per West il mito è scattato più o meno quando un certo Pitchfork ha messo 10 a “My Beautiful Dark Twisted Fantasy” (detto tra noi, un dischetto caruccio ma ruffiano pesante), che l’ha traghettato di colpo da producer serio e rispettato a leggenda vivente col grugno del primo della classe. Pharrell, invece, è semplicemente “quello dei Daft Punk” (chiedere in giro per conferme), che giustamente ha aspettato che esplodesse per bene il successo coi caschetti per sbriciolare ogni record (e anche qualcos’altro) con “Happy”. I risultati sono che oggi abbiamo un West con la sua linea di abbigliamento (fallita tra le risate di molti) e scarpe (andata invece a ruba, sarà merito della Nike), la sua comparsa su South Park e un film in uscita sul suo tour, contro un Pharrell che ha messo il suo feat praticamente a ogni cosa vivente, e non passa settimana senza leggere una nuova news su uno dei due.
Due sboroni di prima categoria, insomma. Con la differenza però che uno ci fa e uno ci è. Nel senso che Pharrell in fondo non fa altro che spremere al massimo il momento, sapendo appunto che è un momento, e mettere il suo nome su più cose possibili per far territorio. Il che tritura i maroni lo stesso, ok, ma in fondo è pura voglia di esserci, messa in pratica con un gesto artisticamente sano e impegnativo come il featuring (“ma che cazzo di impegno suo c’è nel pezzo coi Major Lazer!?” “ok, ora non fate domande bastarde“). L’altro invece è quello che fa il messia, capite. Quello che se non riceve l’MTV Award si incazza dicendo che il migliore è senza dubbio lui e se non vince è perché è nero. Quello che fa una cagata di video come “Bound 2” sapendo che la stampa un modo per dire che è figo lo trova (tipo “sta rivoluzionando l’immaginario americano e gli effetti li vedremo tra qualche anno“, cit. Fact). Questo non è marketing, è lui che è proprio lo sbruffone del secolo. Ma allora meglio le 24 ore di Happy. Ma pure altri due mesi. E dirlo ci costa, cacchio.