Zachary Saginaw, in arte Shigeto, da Ann Arbor, Michigan, è uno dei protagonisti di punta di quella scena sperimentale americana che ha solide radici nell’hip hop e straordinarie capacità diversive rispetto a generi e codificazioni; la stessa di cui fanno parte artisti come Flying Lotus, Nosaj Thing, Shlohmo e Baths, giusto per fare qualche nome. Il suo terzo album su Ghostly, ‘No Better Time Than Now’ (2013), ha riscosso unanimi consensi per la declinazione astratta di ritmiche spezzate ispirate al jazz, le timbriche calde, i suoni concreti e un’atmosfera onirica avvolgente. Shigeto arriva in questi giorni sui palchi italiani, dopo un lungo tour tra America e Oriente e nel mezzo di una serie di importanti date europee. Il 19 febbraio calcherà il palco del Tenax di Firenze nella cornice di _Underpop. Ne abbiamo approfittato per farci raccontare le radici del suo suono, il nuovo album e le prospettive future. Potrebbe essere interessante leggere questa conversazione mentre ascoltate lo speciale radio targato Mixology con un mix di produzioni firmate Shigeto e la sua voce che compare qua e là a raccontare aspetti interessanti del suo suono.
Molti di noi ti hanno conosciuto come batterista di School of Seven Bells, prima ancora che come artista della Ghostly. Raccontaci qualcosa del tuo background musicale.
In realtà il progetto Shigeto è partito sei anni fa ma, ai tempi, non uscivo su Ghostly International, bensì su una sotto-etichetta digitale della stessa label, la Moodgadget. Diversi artisti che poi sono finiti sul catalogo della Ghostly hanno esordito su questa sussidiaria. Ancora prima, da quando avevo circa dieci anni, ho cominciato a fare il batterista in varie formazioni jazz. È così che ho cominciato a girare il paese in lungo e in largo, facendo un mucchio di date, tour, collaborazioni e affezionandomi principalmente alla scena di Detroit perché lì ho studiato alle scuole superiori. Sono arrivato alla produzione musicale molto tardi rispetto al reale inizio della mia carriera musicale.
E il contatto con la Ghostly come è avvenuto?
Per un paio di anni le mie uscite sono sempre state targate Moodgadget. Sam Valenti, il fondatore della Ghostly riserva sempre una attenzione particolare agli artisti che escono in quello che lui stesso considera un vero e proprio vivaio. Così ha iniziato a farmi aprire qualche live importante di artisti dell’etichetta. A quel punto mi è venuto spontaneo chiedere a Jakub Alexander, fondatore assieme ad Adam Hunt della Moodgadget e uomo dietro tante delle produzioni Ghostly, cosa avessi dovuto fare per rafforzare il mio rapporto lavorativo con loro, dato che adoravo diverse uscite fondamentali con il loro marchio, e lui mi ha risposto che trasferirmi a New York avrebbe aiutato molto. Non ci ho pensato due volte, ho caricato con me più cose che potevo e sono arrivato nella grande mela, ricordandomi come era andata la prima uscita con loro: dall’invio del mio primo demo via mail alla loro risposta con la tracklist del primo EP passarono poche ore. Entrato in quel giro di persone ed artisti ho scoperto che School of Seven Bells stavano cercando un batterista per andare in tour, mi son proposto e ho girato un anno assieme a loro. È così che per anni la mia carriera ha ruotato attorno a questo rapporto di amicizia con tutti loro.
‘No Better Time Than Now’ è il tuo terzo album, nel quale espandi la palette dei tuoi suoni, proponendo un approccio molto più organico al processo compositivo. Qual è l’importanza di questa uscita nella prospettiva della tua carriera?
Credo che ‘No Better Time Than Now’ sia il mio primo vero album, quello che sento più mio in assoluto. Per me rappresenta un enorme cambiamento, personale e musicale. Dal precedente EP ‘Lineage’ sono accadute davvero tante cose. Innanzitutto mi sono trasferito da un piccolissimo appartamento a New York, nel quale componevo musica in una stanzetta, ad uno studio davvero grande a Detroit. Qui posso comodamente registrare la mia batteria e tutti i live audio che mi vengono in mente e questo ha radicalmente cambiato il mio modo di fare musica. Per la mia formazione da musicista ho a lungo sofferto il fatto di dover programmare musica attraverso un computer in uno spazio minuscolo e parecchio scomodo. Quindi ora mi sento particolarmente a mio agio nello spazio dello studio, dove posso fare davvero quello che voglio. A volte ci si impiega tanto tempo a capire che tipo di musica si vuol fare davvero e le tante influenze esterne alle quali abbiamo oggi facile accesso non fanno che distrarci ulteriormente. Lo studio di registrazione invece mi protegge, mi lascia lo spazio e il tempo per la concentrazione. Il risultato è che l’ottanta percento dei suoni che potete sentire in questo disco sono tutti suonati da me. In un pezzo che si chiama ‘Olivia’ c’è un loop di chitarra registrato da un mio amico chitarrista newyorchese. A parte questo tutto il resto viene dalle vibrazioni delle mie mani sugli strumenti. Sono queste le vere fondamenta del mio suono, ora.
Le tue nuove composizioni sembrano basarsi su molti livelli di percussioni dal sapore ‘world’, chiavi d’estrazioni blues e ritmi prodotti da te alla batteria. Ci sono altri ingredienti segreti?
In questo momento il mio strumento preferito è questo piccolo synth che si chiama Pocket Piano prodotto dalla Critter And Guitari, una piccola azienda con base a Brooklyn e Philadelphia. È un prodigio analogico tascabile con 6 differenti modalità d’uso e tutta una serie di parametri che si possono modificare. Il suo suono si può sentire in praticamente tutte le canzoni di ‘No Better Time Than Now’. Molti suoni percussivi che potete ascoltare dentro l’album li ho prodotti suonando letteralmente l’ambiente dello studio: i termosifoni, il tavolo, le sedie e tanti altri oggetti che avevo intorno. Quasi tutte le linee di basso le ho invece registrare usando un vecchio Micro-Moog che non avevo mai usato prima e invece si lega perfettamente ai miei nuovi esperimenti sonori.
Quali sono le differenze principali tra il tuo set up da studio e quello che porti in giro con i tuoi live?
In studio uso Reason come sequencer per mettere in fila i suoni di moltissimi strumenti dei quali mi circondo: synth, chitarre, bassi, percussioni, tastiere Rhodes, una Kalimba e addirittura un’arpa. Nel live set uso semplicemente Ableton e una batteria. È stata una scelta meditata quella di tenere la performance dal vivo la più semplice possibile in quanto a strumentazione perché credo che esser concentrati sul minimo di cose possibile ti permette di andare molto a fondo sulle cose che rappresentano la tua esperienza e la tua forza. Certo è bello vedere gente che sul palco fa mille cose contemporaneamente suonando una miriade di strumenti ma, spesso, il risultato non è così potente come ci si potrebbe aspettare. Per avere un impatto reale ed effettivo sul pubblico che hai davanti ti serve qualcosa di semplice e potente.
Se penso al live di Kelpe con Chris Walmsley alla batteria o a quello di Machinedrum con lo stesso strumento (per fare giusto due esempi) mi pare di intuire una specie di nuova centralità delle ritmiche suonate dal vivo dopo che per anni la loro programmazione aveva costituito una delle pratiche centrali della musica elettronica. Hai la stessa impressione?
Nel mio caso personale ho sempre pensato che la batteria sarebbe stata al centro del palco perché è lo strumento sul quale mi sono formato fin da bambino e quindi quello sul quale mi pare di esprimermi o al meglio. In effetti all’inizio della produzione elettronica la programmazione di batterie come la 808 o la 909 sembrava un elemento di reale novità, in grado di generare pattern ritmici sui quali tanta musica si sarebbe basata. Ma oggi non ha più neanche senso usare l’espressione ‘musica elettronica’ perché tutta la musica che viene prodotta passa attraverso le macchine. Se si considera anche come sia radicalmente cambiato il mercato della musica si intuisce facilmente perché tutti suoniamo molto più dal vivo. Ecco che in questo momento storico diventa fondamentale immaginarsi dei modi per rendere più interessante e potente la performance live. Vedere qualcuno che suda suonando la batteria è qualcosa che, semplicemente, ti fa sentire più coinvolto come ascoltatore di quando guardi un produttore dietro un laptop senza riuscire neanche a capire cosa stia facendo dietro lo schermo e quindi da dove vengano i suoni che ti sta proponendo. La semplice associazione visiva tra un movimento del batterista e il suono conseguente basta a farti sentire più coinvolto nello show. Ciò da cui proveniamo come esseri umani è dove proviamo sempre a tornare.
Puoi rivelarci qualcuno dei tuoi piani futuri?
Negli ultimi tempi ho lavorato alle licenze di una mia colonna sonora molto interessante per un videogame sul quale però non posso ancora dire molto se non che uscirà nei prossimi mesi. Sempre in tema di soundtrack ne ho fatta una per un documentario davvero molto bello girato a Detroit. In realtà, il documentario si intitola ‘Street Fighting Man’ non è propriamente sulla città quanto piuttosto sulla lotta che comporta essere afro-americani negli Stati Uniti e, in particolarmente, in alcune città che si stanno molto impoverendo come Baltimora, Washington o, appunto, Detroit. Ho già in cantiere un altro EP e un altro album con la Ghostly International ma ora sono impegnato in un tour di molte date, nel quale tornerò negli Stati Uniti in primavera e in Europa la prossima estate.