Confesso: ogni tanto guardo ancora il Wrestling, ma non è più come un tempo.
Da bambino il wrestling mi piaceva un sacco, e non perché ero piccolo, ingenuo e predisposto a credere che un tizio potesse lanciarsi su un altro tizio senza arrecare nessun danno visibile a se stesso o all’altro. Il Wrestling era come la vita, ma più facile: i problemi si risolvevano a cazzotti e la divisione tra buoni e cattivi non era netta come nei film. Un buono poteva diventare cattivo in un battito d’ali, ci voleva pochissimo: rifiutarsi di dare il cambio al compagno di tag team, colpire alle spalle un altro buono, offendere qualcuno del pubblico, e subito l’idolo venerato diventava lo scemo da deridere e insultare. Per certi versi è un po’ quello che succede ogni giorno con i fatti e le opinioni viste attraverso la lente d’ingrandimento di Facebook. I sentimenti raccontati dal wrestling erano sentimenti accennati, mai davvero approfonditi, dati in pasto a grandi e piccini, più o meno quello che facciamo quando schiacciamo “mi piace”, o lasciamo un commento, sotto uno status che abbiamo letto a malapena o un articolo di cui conosciamo solo il titolo.
Per cui sì, la grande notizia che negli ultimi giorni ha fatto discutere gli appassionati di musica riguarda fondamentalmente il passaggio di Thom Yorke, e del suo sparring partner Nigel Godrich, dalla parte dei buoni a quella dei cattivi. Sono bastate poche parole su Spotify e i sistemi di streaming digitali a cambiare le carte in tavola e trasformare Yorke e il suo produttore più fidato in musicisti avidi alla ricerca dell’ultimo doblone rimasto.
Ovviamente avevano ragione loro, e ovviamente un argomento del genere meriterebbe una discussione più seria e lunga, la verità è che è difficilissimo far capire a chi di Spotify (o Deezer) è solo “utilizzatore finale” – quelli come noi, per capirci, che credono che lo streaming sia una vera e propria risorsa – che tra le mille luci è presente anche qualche ombra. Yorke e Godrich volevano solo dare vita a un dibattito, lasciare emergere un problema, e ottenere delle risposte. Ce l’hanno fatta? Sarà il tempo a dircelo. Intanto vi invitiamo a rileggere le loro dichiarazioni sostituendo Spotify con SIAE. Prendetela così, come un gioco.
Penso a tutto questo, al Wrestling e a Spotify, mentre le luci si spengono e Thom Yorke arriva a occupare il centro del palco – identico a quello del tour americano del 2010 – vestito con una terribile canotta rossa e pantaloni alla pescatora. Uno dei vicini mormora: “Sembra uno di quelli che vende le magliette abusive”, e non sbaglia. Fuori di venditori di t-shirt scamuffe ce ne sono in effetti un bel po’, forse troppi rispetto alla quantità di gente presente al concerto, al punto che viene spontaneo chiedersi se ci sia una sproporzione tra il peso mediatico (e non solo) degli Atoms for Peace e la loro reale presa sul pubblico. Alla destra di Thom c’è Flea. Ed è a petto nudo, come da contratto. Nigel Godrich, a sinistra, si alterna tra chitarre, sintetizzatori e macchine varie, mentre al lato opposto c’è Mauro Refosco con tutto il suo armamentario di percussioni, marimbas e strumenti strani. La batteria di Joey Waronker ha la doppia cassa, anche se non si capisce bene perché. Per certi versi sembra proprio che quest’anno sia tornata pericolosamente in voga anche nelle produzioni non di area metal. Cominciano con Before You Very Eyes, e per circa un’ora e cinquanta minuti alternano brani tratti da “Amok” con altri della carriera solista di Thom Yorke (parecchio “The Eraser”, ma anche il singolo Feeling Pulled Apart By Horses), Rabbit in your Headlight degli Unkle e Paperbag Writer, una delle migliori b-side dei Radiohead.
Fin dall’inizio dello show si capisce che Atoms for Peace è un progetto principalmente legato al ritmo, come dei Radiohead più scarni e meno epici. Il modo in cui la sezione ritmica composta da Flea-Refosco-Waronker interagisce fa pensare immediatamente all’afrobeat. Non a caso Yorke e compari si stanno facendo accompagnare in tour dall’Owiny Sigoma Band, che proprio da quelle sonorità trae spunto. Il concerto scorre via senza particolari sussulti, ognuno ricopre il proprio ruolo: Refosco e Waronker sono delle macchine perfette, Godrich fa Godrich, mette le mani ovunque, si occupa dei cori, e sembra avere il controllo completo del palco, Flea slappa come se non ci fosse un domani, si agita, fa un sacco di note, oppure si limita a doppiare il basso synth ma a volume più basso. Balla un sacco, ovviamente, fa impazzire la folla ed è l’altro elemento catalizzatore. Quello che non è Thom Yorke, per intenderci. Thom Yorke che suona – benissimo, tantissimo e a volume altissimo – la chitarra ritmica, il piano verticale, parla in italiano tra un pezzo e l’altro e si produce nelle ben note routine di danza che l’hanno reso unico e solo erede possibile di Mauro Repetto. Tutto bene quindi, anche se il concerto non decolla mai davvero e quello che avviene sul palco sembra divertire più chi suona rispetto a chi ascolta e si agita tra la folla.
Il problema di Atoms for Peace dal vivo è essenzialmente lo stesso di Atoms for Peace su disco: la scrittura dei brani è debole. Non all’altezza dei suoni e della produzione. E a questo punto neanche dell’esecuzione. Non a caso, anche dal vivo gli estratti da “The Eraser” sembrano raccogliere i favori maggiori, per non parlare dell’unico pezzo dei Radiohead proposto (nel mezzo del quale è peraltro saltato l’impianto, causando un’interruzione di qualche minuto). Loro sul palco ci sanno stare, e ci mancherebbe pure, ma non convincono appieno. Tant’è che non si sente solo la mancanza delle canzoni dei Radiohead, ma anche di quelle imprecisioni che in un certo senso rendono i loro show unici. Perché i Radiohead sono sempre stati una band indie rock che ha smesso di suonare indie rock per fare un’altra cosa senza però distaccarsi troppo dalle proprie radici. Hanno una ragion d’essere che gli Atoms for Peace ancora non hanno e forse non avranno mai.