United Tribes è la storia di un’utopia, tra tribalismo urbano ed edonismo psichedelico, che ha infiammato le notti di una generazione di napoletani nei primi anni ‘90. In città contavano solo le one-night del suono garage, progressive e techno, il club e gli after-hour. Nessuno voleva restare a casa per guardare la videocrazia italiana prendere una forma definitiva. Dal 1991 al 1995, in una parentesi breve ma intensissima, Napoli è stata perfettamente sintonizzata con l’avanguardia dell’house globale. Paul Daley, Robert Owens, Dave Morales, Frankie Knuckles, Jonathan Moore, i Masters At Work ed un giovane Ralf erano di casa da quelle parti. Ma in modo e con uno stile esclusivamente partenopei, unici ed irripetibili. Quella storia di passione, energia viscerale, dramma psicotropo ed estasi divina è ora raccontata in un prezioso libro, “United Tribes”. Ve lo introduciamo con un’intervista a due dei curatori, Ivan Maria Vele e Francesco Quarto (rispettivamente Creative Director e Project Manager), che vi consigliamo di leggere mentre ascoltate l’omonimo canale Mixcloud.
Cos’era United Tribes e da quale progetto emergeva?
United Tribes fu una cellula di militanti di neo tribalismo urbano formatasi a Napoli nei primi anni ’90. Un collettivo eterogeneo dove si profilavano le nuove figure di una società polimorfa. La provenienza culturale era bipolare. Il punk e la disco, che messi insieme ci hanno reso unici.
Quanto era necessario l’edonismo in quegli anni? E quanto la componente dionisiaca?
L’edonismo non era una necessità ma una conseguenza ed una reazione a quel particolare momento storico. Alla caduta del muro reagivamo con “in Gorbachev we Trust” degli Shamen inglesi. Presentavamo una versione mediterranea dell’house punk dove nichilismo trash e sensibilità new wave si mixavano alla meraviglia con la voglia di cambiare pressoché tutto. Godendo di ogni singolo istante di un periodo per noi irripetibile. Dionisio veniva spesso ai nostri avvenimenti. Era il benvenuto. Con tutte le sua amiche ed amici. United Tribes fu il sogno, la visione, l’utopia vista da molto vicino.
Quanta pratica situazionista mettevate in campo in quegli eventi?
Facevamo riferimento soprattutto alla Zona Temporaneamente Autonoma di Hakim Bey ma riletta in salsa house music – il nostro media preferito. La nostra intuizione più grande fu la consapevolezza di vivere nel tempo delle tribù urbane, delle reti pre-internet, delle aggregazioni effimere e post-ideologiche, delle affinità elettive, al di là della società di massa. Ci piaceva utilizzare ogni evento come momento di comunicazione situazionista. Nada Futurnia, Angelo con Svastica, Is There anybody Out There?, Judas Kiss, Videocracy rappresentavano il nostro stato mentale progressivo e non semplici serate danzanti.
A rileggere oggi quegli eventi si legge in filigrana un’attitudine cross-mediale molto in anticipo sui tempi: usavate il graphic design ma anche gli allestimenti, il linguaggio video come quello della moda. Quali erano le idee sottese a questa ricerca?
L’attitudine era quella di una creazione di opera “totale”. Pensavamo che tutte le discipline si dovessero unire al fine di amplificare e rendere più chiaro possibile il messaggio lanciato nei singoli eventi. Sinestesia. Per noi aveva molto più importanza l’aspetto visivo e comunicativo dei flyer che i nomi degli artisti ospitati, come invece si fa oggi. I riferimenti e gli statement estratti da volumi di mitologia psichedelica oppure i tanti neologismi creati diventavano parte integrante dei video realizzati con tecniche artigianali tipo Stop Motion oppure il semplice cut-up visivo stile William Borroughs. Il tutto realizzato in low tech con più registratori messi in catena assieme. I visuals che ne risultavano venivano proiettati come opere uniche al centro dell’evento. La musica si fermava. La Videoarte partiva, come successe alla prima proiezione di Videocracy. Nelle location utilizzavamo proiettori di diapositive, video proiettori che illuminavano superfici sempre diverse: dal telo, al plexiglas al muro della location. Allo storico evento Ecchereccà III ad esempio si decise di alzare una divisione in rete di ferro tra il palco ed il pubblico senza nessun contributo video che era stato installato all’interno di un tunnel di cemento adiacente al dancefloor con alberi ed altri elementi naturali dipinti di argento. Un altro fattore importante era l’utilizzo delle parole dette dallo speaker che non era certo alla “Riccione” ma aveva un un’attitudine più “Politica” e più “Punk” stile Alec Empire. La voce futurista incitava al cambiamento e alla contemporaneità rifacendosi a messaggi lanciati inizialmente sui Flyer. Quelle frasi urlate erano delle vere e proprie bombe lanciate dall’underground per un risveglio della coscienza popolare; il microfono era un’arma tagliente. Tutto questo per dire che c’era voglia di esprimersi attraverso tutti i media possibili per sperimentare e mettere in pratica quella contemporaneità che stavamo cercando di “anticipare.”
In quegli anni ha le radici una scena clubbing partenopea che poi si sarebbe affermata su scala internazionale. Quali sono, secondo voi, le sue componenti peculiari?
La scena techno napoletana di oggi nasce con United Tribes. Non tanto per motivi squisitamente musicali ma antropologici e sociali. Noi rompemmo gli indugi con il sound progressive-techno che meglio si coniugava con le nuove aspirazioni di United Tribes. La ricreazione finì proprio nel 1993. Non più una macchina da party ma l’ideazione di una gloriosa macchina da guerra psichica. Musicalmente il periodo era interessante. Le etichette di riferimento erano molte: Zoom Records, Guerrilla, Sabres of Paradise, Rising high, Junior Boy’s Own, Lafayette, R&S, Guerrilla, Pork, Warp, Hard Hands, KK, Novamute, Hart House, Slip and Slide, Plus 8 Soma, Planet Dog ,Beyond Records, Apollo, Hathose, Ffrr, Internal. A Napoli battezziamo “United Tribes (of the Underground and Progressive people)”, un organizzazione quasi militante e autoreferenziale che da un giorno all’altro aveva archiviato un genere musicale e aperto le danze verso nuove praterie musicali. Basta con le vocine soul, gli accordi di piano, i riff funky, si tornava alla sostanza, alle radici punk, che passava allora per il suono inglese progressive, beat solidi con casse profonde e bassi penetranti, la musica di questo periodo mette le basi per diversi generi che matureranno a partire da queste radici, uno su tutti la musica trance. Nel suono della progressive inglese ci sono sedimenti del punk e del dub reggae, del funk e del pop, ma tutto è riconsiderato in un paesaggio di suoni e ritmi elettronici, non è ancora un sound globalizzato, deterritorializzato come quello della techno contemporanea di cui spesso è impossibile definire una provenienza geografica. ll 5 Marzo 1994 annunciavamo la fine dell’era industriale con Ecchereccà III, fottendocene del disastro politico, etico e sociale che sapevamo sarebbe arrivato. Il nostro era un canto del cigno consapevole.
“Gli Alma Megretta suonano un set del tutto inedito. La breve performance vocale di Rino “Raiz” impressiona Paul Daley al punto che sarà poi invitato nel 1999 a realizzare la traccia Rino’s prayer per l’album Rhythm and Stealth”.
Anche il groove dei djs di United Tribes ed in particolare degli ultimi set dei Three Imaginary Boys ha avuto una qualche influenza sul disco di Paul Daley e Neil Barnes “Leftism” uscito nel 1995. È un disco epocale. Venti anni dopo viene giudicato dalla stampa come uno dei più importanti nella storia della dance. Un mix micidiale di dub, techno-pop, breakbeat, afro e progressive. Nella copertina interna i Leftfield ringraziano Belfast e Napoli, le due città che ritengono essere le più calde di quel periodo caldo. Due realtà evidentemente in trincea. A Belfast la tensione indipendentista non ferma la scena progressive house fomentata da Daley e co. I ragazzi danzano selvaggiamente. Il 31 agosto del 1994 L’IRA avrebbe deposto le armi. A Napoli sta arrivando il G7 e la pizza di George Clinton ma le città sembrerà diversa più o meno per una settimana. Quel manipolo di revolutionary clubbers –United Tribes- ripudia il pensiero unico di camorristi e teatranti della politica e della cultura. Caro Saviano sappi che anche noi eravamo in guerra. Una battaglia psichica che avremmo sicuramente perso ma che abbiamo voluto combattere anche solo per restare fedeli ai nostri ideali tecno-tribali. Anche solo per poterlo affermare venti anni dopo.
Ci raccontate quella storica doppia esperienza al Roxy di Amsterdam nel 1993?
Siamo nel 1993. L’anno della “consacrazione”. Abbiamo preso il controllo della situazione. Maturiamo l idea di “Latin Underground” un evento di 2 giorni al Roxy di Amsterdam dove portiamo le due anime dell’house italiana. Leo Mas, Andrea Gemolotto, Fabrice e Danylo la prima sera e Ralf, Ricky, Flavio e Jg Bros la seconda. Fulmini e saette. Trenta napoletani e altrettanti “italiani” si scatenano in città e nel club. Viaggiamo con la Singapore AirLines e sequestriamo un Hotel di lusso in centro dove notte e giorno si balla nelle stanze, nella Hall, in terrazza. Indimenticabile.
Quali sono gli attori principali di questa storia incredibile?
Ivan Maria Vele fu il leader carismatico di quell’esperienza visionaria. Nel 1986 il concerto dei P.I.L al Teatro Tenda Partenope segnò in modo diretto ed indelebile le sorti di una piccola ma perseverante generazione di post punks partenopei. Teenager con capelli cotonati, pieni di borchie e scarpe Doctor Martens. All’epoca Ivan ha 16 anni e viene dai quartieri moderni della collina del Vomero. Quel concerto fu un evento quasi mistico ma è qualche anno dopo – nel 1990 – che avviene il passaggio dal punk e l’indie-rock all’house music con Screamadelica dei Primal Scream e con l’esplosione della new beat dei Front 242, Nitzer Ebb e Clock DVA. La seconda folgorazione avviene però a Riccione nel 1990. Viviamo Il sogno Italiano del tardo edonismo Reganiano. Divertimento puro. L’Ethos, il ’99 ed il Vae Victis. A quel punto Ivan e Susy (la clubber partenopea più in voga in quel periodo) decidono di importare a Napoli sensazioni e situazioni nuove. È così che nasce il preambolo a United Tribes.
Oggi Ivan Maria è manager di Boiler Corporation, agenzia creativa basata a Milano e Shanghai.
Giovanni Calemma era fan dei Clash già a 12 anni. Poi post-punk stile Joy Division prima di tramutarsi in una sorta di guru metropolitano alla Terence Mckenna. Il “Calemma” avrebbe poi determinato una certa variazione sul tema. Oggi come allora Giovanni fa il fotografo e si occupa di musica.
Danilo era un DJ sui generis. Disco funk-punk. La sua evoluzione musicale ha contribuito ad allargare lo spectrum del gusto partenopeo. Oggi Danilo è architetto e progettista.
Francesco Quarto era un vero e proprio soldato del regimento United Tribes. Sempre dedito alla ricerca e la sperimentazione multimediale. Come oggi.
Lucio Luongo era un creativo a tutto tondo. Irrascibile, incontenibile, geniale. Oggi come ieri Lucio fa il grafico e l’art director.
Monica Fattorusso, l’eterna bambina era una esplosione di energia elettrostatica. Un fenomeno inspiegabile ma a tutt’oggi molto reale: Uapa Girl.
Massimo Smaldone, Salvatore Autiero e Gino Pesce erano tra quelli che più hanno creduto a United Tribes. Personaggi cardine a livello di profusione di energia e allo stesso tempo amici esilaranti: stavamo bene insieme e il divertimento restava il nostro principale obiettivo.
Lulu Kennedy da Londra poi completava il quadro con i suoi looks ed il suo improbabile accento anglo-napoletano. Oggi Lulu è l’editor at large della rivista LOVE e direttore di FashionEast, sempre a Londra.
Il gruppo di Susy Luciano, Zia Tata, Veronica, Roberto Martillotti, Angelo Russo “Giotto” ed Enzo Faiello sembrava uscito da un videoclip della tradizione disco Newyorkese o Riccioniana mentre Florindo Libero Cesareo era un vero e proprio yuppie anni ’80 con tanto di giacca Armani e telefonino di 5 kg.
I 3 Imaginary Boys e cioè Danilo Vigorito, Roberto Biccari e Marcello Simeone furono un prodotto del nostro vivaio. Oggi Danilo fa il DJ e produttore di professione così come Roberto Biccari anche se ad un livello più locale mentre Marcello produce arte contemporanea a Londra.
I JG Bros erano puramente house & garage. Il loro mito era Michael Jackson. I Bros suonavano ovunque e per chiunque ma sappiamo che il loro cuore batteva soprattutto alle nostre serate.
Cosa sopravvive ancora di quegli anni e cosa è andato, definitivamente, perso?
Tutto e niente. Stiamo parlando di uno stato mentale. Positive Attitude. Lo spazio ed il tempo lo abbiamo ingannato. L’House Music di United Tribes ha rappresentato a Napoli un’esperienza quasi politica nel sua accezione più alta. Abbiamo operato un abbattimento delle barriere sociali perché si andava a ballare con il proprio “sole” in contesti in cui non interessava più la casta sociale. I ragazzi del Vomero e di Posillipo e quelli dei Quartieri popolari apprezzavano la stessa musica e dialogavano divertendosi insieme. Non siamo stati un movimento di destra o di sinistra. Non abbiamo risposto alle sirene della deriva anarcoide dei centri sociali o alla bassa etica del trionfante Berlusconismo. Abbiamo lavorato invece alla creazione di un opera d’arte totale utilizzando l’espressione del corpo che danza al ritmo eterno della coscienza tribale.