Uno dei nostri collaboratori ci ha segnalato questo editoriale di OnlyTheBeat, in cui uno dei redattori viene contattato da un servizio che promette, dietro pagamento, di far comparire le tracce dei propri clienti nelle top 10 per genere di Beatport: a detta dell’autore dell’articolo esiste un vero e proprio tariffario, di questo servizio che si dichiara “100% guaranteed”, che deriva in maniera diretta dal numero di download in una settimana necessari per finire nella classifica delle tracce più acquistate.
Ad esempio, per entrare nella top 20 techno sono sufficienti tra centocinquanta e centottanta download in una settimana; moltiplicate questa cifra per il prezzo della vostra traccia su Beatport e avrete la somma che dovrete investire per comparire in classifica.
Seguendo il ragionamento dell’articolo originale, ad un artista conviene usufruire di un servizio del genere, in modo da ottenere date pagate cifre ben superiori, piuttosto che sperare di guadagnare la cifra investita solo con i profitti derivanti da Beatport stesso: l’esempio fatto è che per guadagnare 3000$ bisogna vendere circa quattromila copie di una traccia, mentre investendo la stessa cifra si può finire nella top 20 assoluta e, potenzialmente, ottenere booking alle stesse cifre di chi già ci si trova (mentre scriviamo, in top 10 ci sono artisti come David Guetta, Armin van Buuren ed Eric Prydz, gente dai cachet a svariati zeri).
Fin qui, diciamocelo, niente di nuovo: che esistessero servizi del genere, come quelli che “vendono” i like su Facebook o i follower su Twitter, è un segreto di Pulcinella, ma cerchiamo di andare oltre.
Innanzitutto: siamo così sicuri che la relazione tra la presenza nelle classifiche di Beatport e i booking a N zeri sia diretta?
Proprio come noi, l’autore del post orignale e immaginiamo molti altri, anche i promoter e in generale chi organizza eventi saranno a conoscenza dell’esistenza di servizi come quello in questione, e del fatto quindi che le classifiche di vendita – non solo quella di Beatport – siano da prendere cum grano salis in quanto facilmente influenzabili: siamo così sicuri quindi che basti comprarsi l’accesso alla top 20 per diventare il nuovo Deadmau5, visto anche che le cifre necessarie per un investimento del genere non sembrano proprio alla portata di pochissimi?
Francamente, troviamo che scandalizzarsi così tanto per una situazione del genere sia un po’ naïf, come pure invocare un intervento da parte di Beatport stessa, come nota anche l’autore dell’articolo originale: a prescindere dal fatto che non avrebbe troppo senso chiedere ad un negozio di impedire acquisti che, di fatto, sono legittimi, quello che salta all’occhio davvero è l’entità dei numeri in gioco, che non ci aspettavamo essere così bassi.
Davvero, per avere i famosi quindici minuti di celebrità nella nicchia “indie dance / nu-disco” basta che sole centoventi persone comprino una nostra traccia, o che investiamo meno di 500 euro? Davvero in così pochi usano Beatport, che pure è ormai diventato lo store di riferimento per la musica “danzabile” nel senso più ampio del termine, che copre dall’EDM al Berghain e dal dubstep alla future classic?
Forse è l’intero mercato degli mp3 ad essere bacato, dato che sempre secondo l’articolo originale sembra che i numeri del download illegale siano sensibilmente maggiori, e quindi le vendite di Beatport, oltre a essere manipolabili, sono in ogni caso indicative di un campione ancora più piccolo – e quindi più insignificante – di quanto si pensasse?
O forse il mercato musicale ormai è così articolato, sia nelle possibilità di fruizione (non ci sono solo l’acquisto degli mp3 e il download illegale, ma anche gli ascolti in streaming, le views su Youtube, i vinili, i free download e chi più ne ha più ne metta) che nell’enormità di nicchie e sotto-sottogeneri e scene che fioriscono quotidianamente ai quattro angoli del globo, che è diventato impossibile misurare la popolarità di un musicista, e allora come fare a decidere cosa ascoltare e di cosa essere fan, ora che non abbiamo più fonti autorevoli a cui affidarci?
Ascoltando la musica con attenzione, e decidendo autonomamente cosa ci piace.
Forse è questa la vera rivoluzione musicale degli ultimi anni: non la possibilità di avere quasi tutta la musica mai prodotta in tasca, non la possibilità per chiunque di diventare un musicista di successo solo con un pc nella propria cameretta, ma l’impossibilità che esista qualcuno in grado di decidere, più o meno arbitrariamente, a tavolino, cosa debba “funzionare” e cosa no.
Certo, non è ancora così, ma siamo idealisti e sogniamo un mondo in cui i dati di vendita saranno così irrilevanti, e il panorama musicale così variegato, che tutti gli ascoltatori sapranno di non potersi fidare di nessuno se non del proprio gusto, e allora sì avremo di che divertirci.