Voi fate come ho fatto io. Iniziate dal disco numero due, quello etichettato come “Inspiration”, che rappresenta il ventaglio di influenze riconosciute da Carl Craig nel suo percorso musicale. Perché è giusto partire dalle origini, perché il microcosmo che costituisce il background di uno dei più fantasiosi e spiazzanti artisti techno di sempre doveva essere per forza un affresco multiculturale di livello superiore, e perché quella storia che la Detroit techno storicamente s’è lasciata guidare dalle iniziative elettroniche emerse in parallelo in Europa sarà anche vera, ma con Craig non sembra più un’interpretazione universalmente valida. Sentirsela smentire poi a colpi di Temptations e Muddy Waters ricorda più l’altra storia dell’ascensore di Derrick May, e se a questo aggiungi le emozioni di Erykah Badu, i versi urbani di Freeway e pure il David Lynch musicista, ti ritrovi lungo un filo conduttore che parla di sensazioni, idee, combinazioni in grado di definire gli apici di un’estetica, sia essa il blues, l’r’n’b, il funk o l’hip-hop. Così siete predisposti nella maniera migliore, avete i sensi ricettivi al massimo, vi siete pure fatti il giretto d’ordinanza nella prima ondata detroitiana di Saunderson & co. e siete pronti per il passo successivo.
Poi passate al mix uno, “Aspiration”, dove Craig apre al materiale che popola i suoi dj set di oggi. E qui traete godimento dalle differenze, sia con quanto sentito prima sia con quel che si era formato nella vostra mente quando avevate pensato a un compilation col suo nome sopra. Respirate la gentilezza con cui pezzi come quelli di Huxley, Technasia o Sam Ball preferiscono accompagnare, entrare in sintonia con l’energia tipica della pista invece che dettare in maniera autoritaria i propri ritmi, e non stupitevi più di tanto se trovate che questo sia il carattere distintivo della house invece che della techno. Perché quello di Carl Craig è un po’ un racconto educativo, ti porta in luoghi a te familiari e ti fa cogliere i dettagli che li rendono speciali, e quando alla fine ti fa aumentare l’andatura sui passi più decisi di due come The Egyptian Lover e Ben Sims è per evitare di porre limiti alle lezioni che tu vuoi imparare. Che possono essere diverse, tutte valide in egual misura e genuinamente formative proprio perché raggiunte con le proprie gambe, senza che nessuno voglia imporre alcun messaggio.
Infine girate sulla terza suite, “Meditation”, e chiudete il cerchio con un’ora di architetture inedite fatte di misteri, introspezioni e senso d’attesa. Lasciatevi prendere dall’idea di futuro proposta da Craig, trastullatevi senza vergogna in mezzo alle strutture asciutte ed essenziali, sintesi massima di un’evoluzione elettronica che tiene insieme le origini kosmische di ieri, la darkwave di oggi e una nuova ondata space del futuro. A quel punto, se anche a voi il disegno complessivo si apre come è successo a me, non soffermatevi troppo sul significato di tutto. È vero, nozioni come “tempo”, “novità” e “invenzione” sono di fatto concetti astratti ed estremamente soggettivi, la comunicazione implicita che la musica mette in atto sfugge a qualsiasi rapporto di causa-effetto e non c’è possibilità di ragionare sulle possibili relazioni tra percezioni d’ascolto, contenuti, giudizi di qualità o tratti stilistici se non per puro esercizio dialettico. Ma non seguite tali riflessioni troppo in là. Mettete un punto, chiudete il cofanetto e fate in modo che non torni più nel lettore. Avvicinarsi così tanto all’essenza delle cose può essere pericoloso.