Berlino. Ambasciatori, sin dagli esordi, di una cultura musicale che ha radici nel passato e destinata a permanere, Lucretio e Marieu, al secolo Domenico Cipriani e Alberto Marini, formano una coppia d’assi, veneta doc, che ha saputo portare avanti negli anni questo credo con rigore e dedizione. Che si tratti del progetto The Analogue Cops (di cui potete sentire il live in occasione di Pulse+ a Venezia), o dell’originario ma più veloce Xenogears, per non parlare di Appointment e Bratha, quello che fa il valore intrinseco della loro inesauribile discografia è la riscoperta di quegli strumenti guida, come il nastro magnetico e il vinile, inghiottiti dall’horror vacui dell’era digitale, ma specchio della sostanza genuina e allo stesso tempo coinvolgente dei loro 12”.
È passato del tempo dall’ultima chiacchierata con Soundwall. Cos’è cambiato in cinque anni?
M: In primis, suoniamo un po’ di più rispetto a cinque anni fa e abbiamo una quarantina di dischi in più all’attivo. Cinque anni fa non c’erano una serie di collaborazioni che abbiamo portato avanti come Parassela e Bratha (fresca di uscita su Restoration con remix di Jerome Sydenham). Suonavamo meno e pubblicavamo meno dischi, avevamo uno studio anche un po’ più piccolo. Adesso abbiamo comprato un sacco di cose.
L: E non siamo ancora soddisfatti.
Vi sareste mai immaginati di suonare con Bob Sinclar al Motor Show di Bologna?
L: (ride) Non mi sarei mai immaginato di suonarci perché non pensavo ci potesse essere l’occasione.
M: Però siamo sempre stati grandi fan di Bob Sinclar, lasciando stare gli ultimi periodi in cui ha fatto pop, l’etichetta Yellow Productions è una delle migliori label di house music che ci sia stata nel mondo. Le prime tracce sono fantastiche, all’inizio faceva musica seria, con Dj Gregory, Martin Solveig e il progetto “Africanism”, un approccio un po’ pop, che adesso è diventato un’indecenza. Come persona, per quei dieci minuti che lo abbiamo conosciuto, se la tira meno di tanti che ci sono in giro, i quali suonano quattro volte al mese e pensano di essere chissà chi e sono semplicemente dei dj.
Nella prima intervista con Soundwall, affermate quanto segue “alla fine ci sono produttori che in Italia purtroppo non ricevono il giusto merito”. Siete ancora della stessa opinione?
M: Sì, ce ne sono ancora molti.
L: Il periodo di quell’intervista era veramente brutto. Negli ultimi anni un po’ di nomi sono venuti fuori, e hanno avuto anche qualche riconoscimento. Chi ascolta un certo tipo di musica di sicuro li apprezza. Da una prospettiva lavorativa, la gente fa sempre fatica a far suonare il nome italiano, c’è un po’ di esterofilia. C’è oltretutto una logica legata alla crisi, secondo la quale le discoteche, i club, fanno molta più fatica quindi, puntano sempre a fare il nome per riempire la pista. In questa maniera chi non è “hype”, coloro che hanno più talento, fanno fatica a suonare proprio perché chi organizza eventi non chiama a suonare chi non porta gente. Si va avanti così e quelli veramente bravi non suonano mai.
M: All’estero era un po’ meglio ma ormai anche qui a Berlino funziona così.
Lo scorso 29 Gennaio è uscito il libro intitolato “Vinyl: The Analogue Record in the Digital Age” dei sociologi Bartmanski e Woodward. Il testo esamina la rinascita del vinile, un formato in stato di abbandono dall’industria musicale dal 2008 che è stato protagonista di una rinascita nell’era digitale. Tra le persone coinvolte ci siete anche voi: che esperienza è stata contribuire a questa iniziativa, considerando il vostro amore per il formato?
M: Siamo stati messi in contatto un po’ per caso da un nostro amico, un ragazzo croato il quale ha una sorella professoressa di sociologia che conosceva questi due ricercatori. Suppongo che siamo stati contattati perché amanti del vinile e ci piace sempre ribadire questo aspetto. È stata una bella esperienza, abbiamo conversato con questi due signori con i quali ci siamo trovati in un bar dove ci hanno fatto una sorta di intervista. Abbiamo parlato un po’ di tutto, non solo del vinile, è stata una grande conversazione, appunto per quello bisognerebbe leggere quanto hanno scritto. È stata un’esperienza veramente interessante.
L: Abbiamo spiegato i meccanismi legati al processo di produzione, di cui loro non sapevano molto, del tipo cosa devi fare quando devi stampare, da chi devi andare, quanti soldi spendi, quante copie vendi, a chi le vendi, il ruolo dei distributori. Abbiamo fatto una rassegna di come sono cambiate le cose dal 2007, quando abbiamo iniziato nessuno voleva fare più vinile, tutti facevano il digitale, se tu facevi il vinile ti prendevano per matto, adesso siamo nella situazione opposta, nella quale tutti fanno vinile, anche i più stronzi. I “pressing plants” sono sempre quelli, e non ce la fanno a stare dietro alla mole di lavoro perché nel 2005 hanno chiuso tanti pressing plants, c’è stata una crisi del vinile che è durata quindici anni, quindi i pressing plants hanno tagliato certe spese. Nel 2006 c’era un certo livello, e adesso dato che c’è una crescita non ci stanno più dentro.
M: Infatti tutti i dischi in uscita sono in ritardo di un mese sulla tabella di marcia.
Si può dire che il mercato è già saturo?
M: Prima tutta la musica che aveva un mercato esclusivo di Beatport adesso è finita su vinile perché adesso è il formato che per la musica elettronica è più in voga. Prima eri uno sfigato se compravi il vinile. Ecco ciò che prima trovavi su Beatport adesso lo trovi su vinile.
L: Il fatto è che prima di dischi se ne vendevano pochi, e quindi i negozi di dischi chiudevano proprio quando noi abbiamo iniziato a fare dischi. I primi ce li siamo distribuiti da soli, abbiamo comprato una tessera telefonica internazionale, abbiamo cercato su Internet tutti i numeri dei negozi di dischi d’Europa, e li abbiamo chiamati uno a uno. Quelli su Internet, già metà erano chiusi. Dunque nello scenario di prima chiudevano negozi di dischi e chiudevano distribuzioni, adesso invece li riaprono. Per esempio nel 2002/2003 a Firenze andavo da Black Out Records all’Isolotto che non c’è più perché ha chiuso. Anche se era già in crisi, a questo mio amico Riccardino, che era il padrone del negozio, continuavano ad arrivare dischi. Lui aveva cominciato una distribuzione con Marco Passarani che si chiamava Nature, compravano tutte le etichette di Detroit, tipo Axis, Underground Resistance, tutte queste cose però non le acquistava nessuno perché all’epoca in Italia non le conoscevano e non erano popolari come lo sono adesso. E così mi sono comprato tutti quei dischi che rimanevano nella polvere a un paio di euro la copia. Non c’era Discogs e non faceva figo comprare il vinile. Parlando del presente, per esempio a Berlino, negli ultimi tre anni, hanno aperto sei negozi di dischi.
Vi siete conosciuti a Barcellona, entrambi di Cadoneghe (PD), avete vissuto a Berlino per più di sei anni: come questi luoghi e/o situazioni (a livello di club, negozi di dischi etc.) hanno influenzato la vostra visione musicale oggi?
M: Molto. Noi veniamo da un piccolo paese italiano del nord, sai com’è…
L: Però c’è da dire che potevamo ascoltare della buona musica.
M: Sì, quando eravamo più “giovani” c’era musica buona ovunque.
L: Molta house, poca techno.
Di quali anni stiamo parlando?
L: ‘96/’99.
M: Io la techno non la conoscevo. L’ho iniziata ad ascoltare quando stavo a Barcellona dove nei negozi di dischi ci si imbatteva più nella techno che altro, c’era il negozio di un tale Kike di Valencia che vendeva house però quello che trovavi negli altri negozi era principalmente techno.
L: Io invece la techno l’ho conosciuta a Padova, dove c’era un locale chiamato “Teatro la Scala” che apriva la domenica pomeriggio e una volta al mese suonava Gabry Fasano, il quale all’epoca metteva techno, un sacco di dischi seri tra tedeschi e americani. Ed è lui che ci ha parlato di Berlino e del Tresor per la prima volta. Ma anche gli altri resident, Riccardino e Luca Morris stavano introducendo al giovane pubblico la techno (principalmente di stampo europeo) insieme a dischi più electro pop come quelli di Gigolo Records o di Felix da Housecat.
M: Dopo a Barcellona abbiamo incontrato Eduardo De La Calle…
L: Negli anni in cui siamo stati noi, a Barcellona, potevi ascoltare un sacco di artisti, c’era di tutto. Dall’electro pop all’house, alla techno più bastarda, artisti come Funk D’Void, Dave Tarrida, Little Louie Vega, Todd Terry, The Hacker, Jori Hulkkonen o Joey Negro suonavano spesso a Barcellona.
M: Al tempo funzionava molto Barcellona, adesso si è un po’ fermata. Ciò che per noi era nuovo nel 2002-2004, adesso lo stanno ancora riproponendo. Gli stessi resident, gli stessi guest.
L: Quando ci vivevamo noi era una città che musicalmente ti offriva tanto a livello di influenze, c’erano un sacco di negozi di dischi, c’erano Tazmaniac, Sci-Fi, La Ruta Natural e molti altri.
M: Prima erano meno bigotti. Adesso sono diventati un po’ più civili come città rispetto a quello che era.
L: Un centro sociale a cielo aperto. Adesso non puoi bere per strada, non puoi fare quello, non puoi fare quell’altro. E tutto stava diventando carissimo, come conseguenza della bolla immobiliare spagnola. Così hanno fatto morire il fermento, la movida. In seguito all’esperienza di Barcellona ci siamo trasferiti a Berlino, io nel 2006, Alberto nel 2007.
M: Quando siamo arrivati era una città più tedesca, adesso è sempre piena di fervore ma sta subendo un processo di gentrificazione veloce e inarrestabile. È arrivata molta gente che prima non voleva nemmeno sentire parlare di Berlino, quella che era solita frequentare Ibiza, per esempio. Una volta quella gente non veniva a Berlino. Adesso è diventata una moda: l’estate Ibiza, l’inverno Berlino.
L: Le prime volte che andavamo al Panorama Bar non ti dico che eravamo gli unici italiani, ma di sicuro li contavi sulle dita di una mano.
Le persone hanno modificato la geografia musicale della città?
M: Sì e in negativo.
L: Comunque neanche quando siamo arrivati noi c’erano tante cose buone. Le feste dove si poteva ascoltare la musica seria erano quelle più indipendenti, e quasi sempre quelle dove c’era meno gente. Non è cambiato niente. Quello che è cambiato è che prima l’immondizia la faceva gente sconosciuta; adesso la porcheria la mette il dj con un nome e un seguito.
M: Si parla tanto di Berlino come capitale della musica, ma molte feste in Italia, e in Inghilterra sono di gran lunga superiori.
L: In Inghilterra sono avanti anni luce. Posti tipo Glasgow, Manchester, Leeds, e anche Londra che è una realtà molto particolare e frammentata.
M: Come il trend di fare quella techno, al Tunnel, in cui vai a delle serate e ascolti per venti ore le stesse note senza variazione.
L: Quella paranoica. Techno moderna la chiamano, senza soul. Automaticamente se non hai soul non avresti nemmeno la techno ma sono tool, con suoni poveri. Molti non sanno cosa dire, non sanno fare musica e cosa metterci dentro.
Durante le vostre performance live e in studio siete artisti che preferiscono interagire con macchine (analogiche e non). Quale relazione s’instaura tra voi e lo strumento che state utilizzando?
L: È importante chiarire una cosa. Noi non siamo contro il computer, contro i software, noi siamo contro una certa maniera di usare questo tipo di strumenti. Quando il software viene usato come scorciatoia, come un giocattolo in mano a un bambino, che fa uscire delle cose che vengono spacciate per professionali, allora in quel caso ci opponiamo. Non siamo contro Ableton di per sé ma schifiamo chi usa Ableton per farsi delle librerie. Però se usi Ableton come sequencer o se usi Pro Tools per registrare ed editare l’audio, o se usi Pure Data o Super Collider per fare sound design, sono tutti strumenti eccezionali. Per quanto riguarda il nostro approccio preferiamo metterci anche le macchine perché conferiscono un tocco e un feeling più diretti. Specialmente se non si fa musica da soli. Perché se sei da solo ti puoi mettere anche davanti al computer e smanettare e perderti in nerdismi.
M: Con l’hardware ognuno si trova meglio con un certo tipo di macchina. Io e Domenico ci siamo divisi i compiti sia in studio che durante i live. Io sto più sulle drums e sui campioni, mentre Domenico si dedica alla sintesi e all’arrangiamento MIDI.
L: Il nostro live è in continuo cambiamento. Nello specifico per quanto riguarda il set up ci sono delle cose di base che rimangono e altre che cambiano. Per esempio compriamo un determinato synth su Internet, lo portiamo fuori per suonare, e poi valutiamo se è un synth esclusivamente per lo studio, o per le performance dal vivo. Il rapporto che ti può dare un determinato tipo di macchina è sempre molto immediato, ma cambia da fabbricante a fabbricante. Con un computer puoi fare tutto, mentre con una macchina puoi svolgere solo quei determinati compiti per cui è stata progettata. Questi limiti amplificano la creatività.
M: Ed è necessario precisare che hardware non vuol dire analogico. Per esempio il nostro nome “ The Analogue Cops”, è nato per gioco, non perché usiamo solo macchine analogiche. Qualcuno può aver anche travisato, ma è nato semplicemente dal commento che qualcuno fece ad un nostro post su un forum dicendo “chi pensate di essere, gli Analogue Cops che vengono qui a mostrare il distintivo?”
L: Il panorama è cambiato con Internet. Chi non ha niente deve giocarsela sul marketing mentre chi lavora sul serio, spesso non si occupa di queste cose. Noi avevamo in testa la parola “analogue” perché il nostro outboard (mixer, compressori e equalizzatori) è sempre stato analogico. Come abbiamo detto più volte, per i professionisti del settore è fuori discussione il fatto che i mix “out of the box” suonino meglio. O che solo pochi costosissimi compressori digitali possono tenere testa a quelli a valvole o a transistor. Mentre per quanto riguarda synth, sequencer e tutte quelle cose là, è una questione di scelte.
Un altro aspetto della produzione che mi premeva affrontare con voi è quello del protocollo MIDI: cosa ha determinato la sua introduzione nel 1983 a livello pratico?
L: Prima le macchine non potevano comunicare. Potevano comunicare solo con variazioni del voltaggio. E questo comportava un limite grandissimo a livello di composizione e un altro limite al livello pratico, perché quando le note sono determinate da l’ampiezza del voltaggio, il pitch non è stabile e quindi non si possono creare accordi, cioè si possono creare ma sono instabili. Il MIDI ha reso possibile tutto quello che è la musica elettronica adesso. Puoi fare tutto praticamente con il MIDI.
M: Se non fosse stato introdotto il MIDI tutto sarebbe diverso.
Passiamo alla registrazione. Avete dichiarato di utilizzare un registratore a nastro magnetico. Quali sono i vantaggi di quest’altro processo?
M: Il vantaggio fondamentale di questo processo è il calore della compressione sul nastro. Puoi ottenere un suono molto più sporco, impossibile da replicare con una registrazione digitale senza l’utilizzo di alcun tipo di outboard.
L: L’analogico è un sistema non lineare, mentre il digitale è lineare. Il suono del nastro è più caldo e non è detto che non lo puoi ottenere senza cassetta però questa è di sicuro la maniera più economica per ottenere quel determinato tipo di suono.
M: C’è da dire che per fare un buon digitale alla fine il prezzo non è tanto inferiore a quello di tutte le cose hardware che puoi comprare. Il digitale fatto bene è carissimo.
L: Puoi scaricare una DAW craccata su Internet e domani sei un produttore anche se non hai la minima idea di come funzionano un mixer, un compressore, un riverbero. Però ce li hai là e li puoi usare, puoi fare della musica che qualcuno ti può stampare, perché hai una buona immagine da vendere, però nessuno si cura della qualità di quella musica. Per esempio ci sono un paio di etichette che tentano di ricreare questo suono “raw” che noi possiamo anche aver superato in un certo senso. Ci sono persone che provano a ricreare, quello che senza hardware e soprattutto senza competenze tecniche non si può ricreare. Non è questione di “punk”, i Sex Pistols erano quattro cani a suonare ma in studio con loro c’erano i migliori ingegneri. Il suono del grunge è zozzo e quasi casalingo ma, Butch Vig (che l’ha confezionato) non era per niente un incompetente. Ci vuole competenza per trasferire “la zozzeria” in un supporto di riproduzione. Ma siccome ci si può comprare tutto, ti compri le classifiche, ti compri i media, e poi vai a suonare. Tutto questo meccanismo è ovunque. La musica elettronica è un po’ una grande truffa. Come tutto il music business, forse, ma sicuramente nelle produzioni “mainstream” lavorano ancora solo i professionisti (o per lo meno di sicuro davanti al mixer e quando si fa il mastering).
In tempi relativamente più recenti avete riscoperto il vostro primo progetto in studio Xenogears, richiamo all’omonimo videogioco giapponese?
L: Si è stato il nostro primo progetto. L’anno scorso è uscito l’album “Lost Artemis”. Il progetto era stato abbandonato quando noi abbiamo iniziato l’etichetta Restoration con un’altra idea di techno. Il risultato di Xenogears era una techno molto veloce a 136/138 bpm come minimo e ci siamo accorti che non era il momento giusto per fare quel tipo di musica, il mercato ci ha puniti e ci siamo resi conto che dovevamo un po’ rallentare se volevamo continuare a fare musica. Adesso c’è anche una tendenza di techno molto più dura e veloce. Prima era semplicemente troppo.
M: Adesso la techno viaggia a 128 bpm.
L: Era proprio una questione di velocità che è difficile da vendere, perché nessuno suona veloce; tante volte anche noi quando andiamo a suonare in giro sembra che per il pubblico i nostri dischi siano troppo veloci. Nel live siamo dovuti scendere con i bpm.
L: Per quanto riguarda il nome, la connessione è questa: giocavamo con il videogioco giapponese e in generale ci piacevano i videogiochi con i robot. Alberto poi è un appassionato di anime e colleziona i robot (“gears”).
M: Stavamo cercando un nome e ci siamo detti “perché non prendiamo quello?”.
In che modo si differenzia rispetto al vostro progetto cardine “The Analogue Cops”?
L: Velocità. In termini di sonorità siamo più o meno simili, si può dire che “Xenogears” è più techno e “The Analogue Cops” ha delle venature più house ma fino a un certo punto.
M: Solo la velocità li differenzia veramente, e il progetto “Xenogears” lo fai in pochi posti, per esempio come live lo facciamo al Tresor.
L: Il locale deve essere un posto dove puoi fare cose più spinte, più veloci. In alcuni luoghi, che già abbiamo testato, risulta troppo eccessivo. Poi dipende molto da chi ti suona prima e chi ti suona dopo. In una serata il resident è fondamentale.
Steffi, Blawan, EMG, John Swing, No Mad Ronin, Alex Picone: al di là dei loro diversi imprint musicali, cosa hanno in comune? Con quali criteri selezionate artisti con i quali lavorare?
M: Nessun criterio in particolare. Ci troviamo, facciamo due chiacchiere. Vediamo se hanno voglia di fare musica insieme e la facciamo.
L: No Mad Ronin è uno dei migliori. Devono essere prima persone con cui vai d’accordo al di fuori della musica. Ci deve essere prima un certo tipo di condivisione o non si fa niente.
M: Lo stesso vale per le etichette. Con la nostra distribuzione abbiamo un rapporto abbastanza buono sul piano personale, ci conosciamo bene, ogni volta che vogliamo fare qualcosa di nuovo, ci appoggia.
È difficile focalizzarsi su ciascun progetto, qual è il vostro segreto?
L: Fondamentalmente facciamo solo quello, siamo circondati di musica, e noi la musica la facciamo per metterla in vinile e suonarla. Noi produciamo musica perché ci piace fare musica. Non ci dobbiamo focalizzare. Per esempio nel caso di Steffi o di Blawan è difficile trovarsi, Steffi è molto impegnata e ha la sua vita. Blawan o John Swing non vivono qui. A volte è anche un problema e spazi. Poi per il resto se vogliamo veramente fare musica la facciamo, la stampiamo, e la pubblichiamo. Se si è capaci la musica si fa in poco tempo. Se uno non ne è capace ci mette di più. Io penso che un vero produttore di dischi, è colui che ne produce molti.
In questo momento a cosa vi state dedicando?
L: Esce il mio disco sulla mia etichetta Machines State, è appena uscito quello di Alberto sulla sua etichetta Enlighted Wax, poi abbiamo un EP come The Analogue Cops che esce su Outelectronic Recordings, un’etichetta italiana, poi abbiamo uno split EP come Parassela che esce sempre per un etichetta italiana, Transition Lab. Un altro Restoration come Third Side che uscirà a Maggio, nello stesso mese uno split EP su Hypercolour come Marieu e Lucretio. Poi usciranno due nostri remix su Hardmoon London, etichetta di Fabio Monesi. Dovrà uscire un remix anche per Fragil Musique. Escono molte cose in continuazione. Nel frattempo lavoriamo anche al progetto Appointment con John Swing e EMG, i quali tra poco ripartiranno con la loro etichetta, LiveJam Limited, con la quale si erano fermati. Ci sarà una traccia Appointment.
M: Abbiamo aiutato il nostro amico Mannella (boss di Jt Series) a mettere in piedi una label che si chiama PIC NIC, come la focacceria in Wienerstrasse gestita da un amico in comune dove siamo soliti incontrarci e passare molto tempo insieme. La prima uscita sarà una traccia che ho prodotto insieme a Mannella con uno stupendo remix di Cristian Vogel, mentre la seconda release sarà una traccia originale di Lucretio e del giovane DIY con un remix del mitico Vladislav Delay.
Ultime dichiarazioni?
L: Per questo 2015 voletevi tutti un po’ più bene!