Alla fine si resta sempre un po’ a metà del guado, con Trentemoller. Bravo è bravo. Meritorio è meritorio, perché in un periodo storico in cui si stava iniziando un po’ ad esagerare con la sottrazione sonora e l’assenza di una qualsiasi forma di musicalità, è arrivato lui a ricordare che ehi, la musica è fatta (anche) di note, di perizia compositiva, di arrangiamenti da giocare con tecnica non banale, non solo di tre suonini afoni e due-cambi-due di struttura ritmica. Eppure, qua parliamo a titolo personale, c’è sempre stato qualcosa che ci ha impedito di innamorarci incondizionatamente del lavoro dell’artista scandinavo. Non capivamo cosa, con “Lost” probabilmente ci arriviamo.
Il punto è: Trentemoller si sente legato, più che all’elettronica o più che solo all’elettronica, anche a un certo tipo di new wave un po’ elettro un po’ pop un po’ rock un po’ dark che ha dominato gli aspetti migliori delle scene musicali degli anni ’80 (sì, erano gli aspetti migliori, e nessuno ci toglierà dalla testa che le robe italo-disco erano invece fra gli aspetti peggiori, a parte poche nobili eccezioni). La cosa, in sé, non è certo un male. Ma diventa un male quando ti rendi conto che, misurato su quel campo, Trentemoller è bravo ma non bravissimo. Non è geniale. Può apparire geniale il suo modo di applicare quella grammatica lì a strutture (un po’ più) da dancefloor, tentando di mantenerne la ricchezza espressiva, ma sinceramente per noi lo è solo fino ad un certo punto. E questo suo nuovo lavoro, molto più di tutti quelli precedenti, spinge sulla forma-canzone, quindi il riferirsi agli anni ’80 di cui sopra diventa definitivamente esplicito, quasi ostentato (“Still On Fire” è quasi sguaiata nel citare così chiaramente il basso di Peter Hook e dei Joy Division; ma anche “Deceive” o “Never Stop Running” non scherzano). Il risultato è soddisfacente, certo. Ma non è quello di un fuoriclasse. E’ quello di uno studente bravo, di bella calligrafia ed adeguata preparazione, che tuttavia non ha il coraggio di abbandonare i banchi di scuola per costruire qualcosa di veramente suo e veramente innovativo.
Pretendiamo troppo da Trentemoller? Forse. Forse lo facciamo perché, come si diceva nelle prime righe, ad un certo punto ha rappresentato con pochi altri una luce nel sostanziale buio in cui si stava procedendo; o forse perché l’abbiamo visto più volte dal vivo e nei live set lui riesce a raggiungere un equilibrio perfetto tra vecchio e nuovo, tra classicità ed innovazione, tra forza ritmico-dinamica e suggestione. Insomma, l’accompagna l’aria del fuoriclasse vero.
Ma “Lost”, che nei momenti migliori come scrittura chiama in causa Radiohead (“Gravity”) o Blonde Redhead (“Come Undone”, e infatti ci canta Kazu Makino), non è il disco di un fuoriclasse. Diffidate, se ve lo spacceranno come tale. Del resto però se lo stanno facendo con Nicolas Jaar, perché non farlo con “Lost”…? Tuttavia ora come mai prima è il momento di rendersi conto che va alzata l’asticella. Nell’eccesso di uscite che ci sono in giro, la vera consistenza di un artista – ne siamo sempre più convinti – va giudicata da un album; e gli album vanno giudicati molto severamente. E’ così che dovrebbe andare, per un’ecologia della scena musicale.
Il risultato e il senso di tutto questo discorso è che “Lost”, coi suoi pregi (manco pochi) e con le sue zavorre (certi momenti noiosi, certi arrangiamenti inutilmente tiepidi e debolucci), va considerato il risultato minimo a cui si dovrebbe ambire per poter ricevere vero apprezzamento da critica e pubblico, non un risultato massimo. Il titolo di campione Trentemoller se lo può guadagnare, eccome; ma non l’ha ancora guadagnato, e non saranno alcuni buoni passaggi di questo disco a farglielo guadagnare, non ancora.