Così diversi, così uguali. Hanno tante cose in comune, Jazz:Re:Found e Spring Attitude: innanzitutto l’amicizia fra i due fondatori & direttori artistici (rispettivamente Denis Longhi ed Andrea Esu), due persone per cui la musica è prima di tutto un affare di cuore che un affare e basta, ma al tempo stesso non vogliono né possono appartenere alla categoria di quelli che possono spendere e spandere senza preoccuparsi della sostenibilità economica. Poi, il fatto di essersi sempre sistemati “a lato” (non antagonisti: a lato) rispetti agli automatismi e lo star system del clubbing contemporaneo: per mille motivi sono due festival che nascono entrambi dall’onda lunga della miglior club culture italiana, da lì arrivano, ma tutt’e due si sono sempre tenuti pronti a non cadere nei suoi luoghi comuni, nelle sue coazioni a ripetere, nei suoi metodi per avere successo, scegliendo invece strade alternative e “diagonali”. La prima fra queste, il fatto di aver puntato (anche) sulla musica live, sulla gente cioè che suona sul palco, quando non era di moda farlo e quando pareva un mezzo suicidio di farlo, visto che costava di più (dieci, dodici persone fra musicisti e tecnici costano più di spese di un dj e del suo tour manager, per quanto quest’ultimi due possano scolarsi mille bottiglie di vodka offrendole a chiunque sia sul palco, e sono molto più complicati da gestire tecnicamente) e rendeva di meno (c’è stata una fase in cui la “musica suonata” era il passato, il deejaying e i software in laptop invece l’unico presente vivo ed interessante: non nascondiamocelo).
E poi, tornando al semplice deejayismo, sia Jazz:Re:Found che Spring Attitude hanno spesso fatto cose atipiche. Il primo ha puntato sulla “galassia Worldwide” (la piattaforma radiofonica e non solo di Gilles Peterson) che ora va tanto tanto di moda e piace alla gente che piace, ma quando Jazz:Re:Found ha iniziato sembrava una sfera musicale che poteva interessare solo quattro scemi sfigati di provincia rimasti fermi alla disco boogie ed all’acid jazz (ed anche oggi fa fatica a sopravvivere); il secondo ha sempre tenuto la barra dritta su certi nomi storici – perché amici, perché “vicini” – anche quando pareva controproducente farli (perché non “di moda”, non più all’ultimo grido) o, altra faccia della stessa medaglia, non chiamava per forza i riempi-pista del momento ma faceva scelte “laterali” più vicine ai propri gusti. Gusti che poi magari, come nel caso di Jazz:Re:Found, da residuali e fuori moda ieri diventavano invece i gusti migliori e più esclusivi oggi.
Altra cosa in comune, e pure un po’ problematica, è il nomadismo. Nomadismo sul calendario: se i grandi festival (Sónar e Dekmantel, per stare all’estero, o Kappa e Club To Club per stare in Italia) sono praticamente delle sentenze per quanto riguarda il periodo in cui accadono, prendono sempre “quel” weekend dell’anno, Jazz:Re:Found è stato fatto un po’ in tutte le stagioni dell’estate (e in qualche caso anche dell’inverno o dell’autunno), Spring Attitude addirittura deve il nome proprio al suo nascere a primavera ma da qualche anno si svolge in autunno o già di lì, “Spring stocazzo” insomma, detto ridendo un po’, e pensando alla ventazza gelida che ha colpito chi c’era il secondo giorno ed è arrivato incautamente solo in t-shirt. Nomadismo nei luoghi: Jazz:Re:Found è nato a Vercelli (in due, anzi, tre posti diversi), si è trasferito a Torino, ha accarezzato l’idea di Milano, ora ha trovato solide basi non in una città come successo finora ma nell’idilliaco contesto del Monferrato; Spring Attitude è sempre stato a Roma, ma ogni due, tre anni deve cambiare sede. L’esatto contrario dei festival consolidati.
Eppure, “consolidati” lo sono sia Jazz:Re:Found che Spring Attitude, ormai. Anzi: quest’anno per entrambi è stata una edizione importantissima. Sì, importantissima. Anzi: nella storia di entrambi i festival, l’edizione più importante che mai – e la loro non è una storia povera di eventi e di momenti interessanti. Soprattutto: possono porsi come esempio positivo su come vanno fatte le cose, e su quali traguardi si può puntare se si stringono i denti, se si è bravi (…e si ha anche un po’ di fortuna, ma se vai avanti da così tanti anni non è più solo fortuna).
Jazz:Re:Found è per il terzo anno a Cella Monte, incantevole paesino nel Monferrato, e in questo 2022 ha raggiunto davvero un livello incredibile di bellezza e di integrazione col contesto. Il primo anno era un esperimento abbastanza riuscito (abbastanza, non del tutto…), il secondo anno era riuscito ancora di più ma comunque, causa Covid, la presenza delle persone era a numero calmierato, quest’anno davvero è stato magico. Chi c’era, lo sa. Perché la verità è che tutta Cella Monte diventava al 100% il setting del festival: e non solo perché potevi pagare col tuo bracciale ovunque e non solo in zona palchi (il cashless ha funzionato senza intoppi), ma perché proprio l’intero paese era “conquistato” dal festival, senza più i piccoli sospetti e lo scetticismo iniziale da parte delle realtà locali che, ad occhi attenti, era possibile avvertire all’inizio, nel primo anno di svolgimento monferratesco.
A Cella Monte i risvegli sono così: col pianoforte del bravissimo Luigi Ranghino alle dieci del mattino
Il risultato è, lo ripetiamo, magico: “festival” nel caso di Jazz:Re:Found non è più “Venire a vedere dei bei concerti e degli ottimi dj set” ma si è fatto proprio un “Accidenti, mi ritrovo catapultato in una bellissima dimensione parallela da favola per tre giorni, tra le colline del Monferrato”. Il campeggio era sold out già in prevendita, segno che questa cosa era stata recepita in partenza, in modo preventivo; ma soprattutto, lo capivi dalle facce delle persone. E lo sentivi tu stesso.
Louie Vega, un set strepitoso
Esempi concreti e tangibili? Il fatto che ci sia stato qualche “pacco” last minute (Mace, Emma-Jean Thackray) non ha indisposto praticamente nessuno. Perché già la “esperienza” era sufficiente a ripagarti del fatto che ti eri arrampicato fino a lì. Eh sì. E questo piglio positivo influenzava anche gli artisti: Louie Vega ad esempio ha fatto un set strepitoso, soprattutto all’inizio, era da tempo che non lo sentivamo suonare così bene; le piccole star Domi e JD Beck (bravi davvero: possono sembrare delle creature dell’hype, da come si vestono e da come vengono spinti da Anderson .Paak in giù, ma suonando hanno dimostrato una formazione serissima e strepitosa) attaccavano bottone con la gente sotto le frasche; Ditonellapiaga e la sua band facevano le quattro del mattino per i palchi e le strade del paese; Moodymann mai visto così di buon umore; Lefto e Quantic erano praticamente dei maestri di cerimonie; gli Azymuth, che ne hanno visto mille, felicissimi. E potremmo continuare. L’esperienza standardizzata del (visto dalla parte dello spettatore) vieni-vedi-vai, o (dalla parte dell’artista) vieni-suoni-vai, viene clamorosamente ampliata, il tutto a favore proprio di una componente di benessere esistenziale e di tempi che si dilatano, sia per il pubblico che per gli artisti. In uno scenario, sul serio, da sogno.
Domi e JD Beck in azione
E a questo è da aggiungere una cosa molto importante. Che fa traslare il discorso anche su Spring Attitude (e ci riporta al discorso iniziale di questo report). Ovvero: l’identità. Una forza colossale di Jazz:Re:Found è infatti tutto quel nucleo di amici-artisti che è diventato parte del network ha sviluppato proprio un senso di appartenenza e di comunanza intellettuale. Raffaele Costantino, Ma Nu!, Passenger, Luca Barcellona, Cristian Bevilacqua, Angie Back To Mono non solo hanno dimostrato ciascuno a suo modo di essere bravissimi, artisticamente “perfetti” per il festival, ma li vedevi proprio partecipi su ciascun aspetto della manifestazione, anche quelli organizzativi. Erano i primi a seminare un’attitudine fatta di empatia e di “We are all in this together”, e accidenti questo quanto manca nel panorama contemporaneo degli eventi musicali. Questa cosa, davvero, si sente. Quando c’è un bel clima e un’affinità fra chi il festival lo fa e chi ci lavora (dagli artisti agli ultimi dei volontari), si possono fare miracoli. E Jazz:Re:Found è, sempre di più e sempre meglio, un miracolo.
Moodymann, per dire, si divertiva addirittura a farsi fotografare. Tipo così:
Spring Attitude, come dicevamo all’inizio, è in parte una questione diversa. E’ in città (e che città…), non in fatati paesi di poche centinaia di persone in mezzo a colline da sogno; non nasce come approdo per “happy few” ma come festival fatto e finito, iper-implementazione delle serate club di successo targate L-Ektrica. Però, anche questo come già detto, ha molti punti in comune, punti appunto “identitari”. A partire dall’atteggiamento, dall’attitudine. Spiegando con esempi concreti: è meno “fatto in casa” di Jazz:Re:Found, ma si respira sempre e comunque un sapore di “artigianato”; è meno esplicito nel dedicarsi a uno specifico mondo sonoro, come invece fa Jazz:Re:Found, ma negli anni ha sempre più delineato una propria direzione, che era ritagliata non sul mercato e sulle sue mutazioni ma sul gusto del suo direttore artistico e della sua personale evoluzione nel rapportarsi con la musica (in entrambi i casi, vale infatti per entrambi i festival: eventi lontani dall’essere costruiti sotto dettatura delle agenzie di booking e dei numeri di follower su Instagram). L’effetto finale è un sapore fortemente “organico” e scorrevole che rende stranamente sensato il fatto che oggi in SA ci siano in line up delle realtà anche indie-pop (Fulminacci, Post Nebbia, Marco Castello…): perché capisci che sono lì non perché “…l’indie funziona, buttiamoci sull’indie”, quanto invece per un ragionamento e una sensibilità sviluppati negli anni in modo specifico, personale, ben definito.
Se uno guarda negli anni le line up edizione dopo edizione di Spring Attitude, il cartellone del 2022 lo trova infatti quasi “logico”, “inevitabile”. Ci sono tutti quelli che dovevano esserci, c’è esattamente l’evoluzione che ci doveva stare. Spring Attitude è oggi quel posto in cui se vieni per berlineggiare con Ellen Allien scopri il pop indie “classy” dei Post Nebbia (bravi dal vivo più ancora che su disco); se vuoi fare festa coi Nu Genea scopri che la puoi fare anche, nel suo piccolo, con Whitemary (al netto dei problemi tecnici che ha avuto sul palco); se danzi trance-electro coi Red Axes lo fai anche jazz-funk ed acustico coi Kokoroko; se vuoi parentesi oscuro esoteriche le trovi grazie sia a Iosonouncane, ma anche alla bravissima Ginevra Nervi; se canti in coro indie con Fulminacci poi ti scopri sempre a cantare sì, ma in un rave, con Cosmo (ottimo il suo show, con accenti sempre più underworldiani e lontani dal pop). Non è un paciugo, non è un mischione casuale costruito per accumulare più target di pubblico possibile: è Spring Attitude. E lo “senti”. E’ il posto dove ad esempio più e meglio possono convivere Venerus e Blessed Madonna (…peccato solo che entrambi in questo periodi siano meno in forma di un paio d’anni fa, è una fase di vuoto d’ispirazione, momenti migliori arriveranno).
Cosmo a Spring Attitude. Sì, era vestito (e ha fatto un gran concerto)
L’unica roba straniante di questa edizione di Spring è stata la venue. Ok: il primo impatto è strepitoso, la piazza centrale dei Cinecittà Studios, quella acchittata ad Antica Roma, con templi, colonne e palazzi da Foro iper-realistici che davvero ti pare di stare nella Roma dei Cesari. Passato l’effetto-wow iniziale, ti rendi conto che per un anno va bene, ma questo non può e non deve diventare la sede definitiva di Spring Attitude: troppo “ingombrante” visivamente, troppo paracula e pacchiana, troppo “da Luna Park” – per un festival che invece fa dell’eleganza e della freschezza la sua ragion d’essere. Sì: per un anno, va bene. Ma ci dispiacerebbe davvero vedere diventare Spring Attitude “il festival in mezzo alla finta Antica Roma”, perché metterebbe ombra alla sua ricchezza ed alla sua eleganza per diventare invece un Elrow indie. Puoi farci le grandi adunate festaiole alla appunto Elrow o Circoloco, per offrire una tantum un setting diverso, e delle foto in più e più bizzarre a chi ci viene come audience; ma SA è qualcosa di più. E’ un “discorso”, da sempre. E’, lo dice tra l’altro il nome stesso del festival, una “attitudine”. E tale deve restare. Non è un posto dove pensi solo a spettacolarizzare in maniera crassa. Puoi fare festa, sì, quello sì: vedi appunto alla voce Nu Genea, che ormai non sono solo una trovata intelligente di Lucio (Aquilina) e Massi (DL) ma un vero e proprio caravanserraglio con mille persone sul palco a fomentare funk, world music ed allegria, ai limiti del kitsch ma suonando comunque bene e rubando alla fine dei conti l’entusiasmo smodato di tutti; ma è un tipo di festa, quella di SA, che ha sempre una innata eleganza e particolarità, senza eccessi smascellanti (…e infatti hanno sbagliato sia Blessed Madonna che Ellen Allien a bombardare senza pietà una volta salite in console, a chiusura delle due serate: è che avranno visto migliaia di persone davanti e le rovine romane gigantesche di cartapesta e avranno pensato che bisognasse buttarla sulla grana grossa. Sbagliando. Hanno in parte svuotato).
Per i Nu Genea un trionfo assoluto, davanti alla (finta!) Roma imperiale
Spring Attitude poi, restando così tanto e così bene se stesso, quest’anno ha anche finalmente raccolto dal punto di vista dei numeri tutto quanto seminato dai suoi esordi ad oggi: entrambe le serate sold out (6000 paganti circa), e per il Day 2 (quello per intenderci coi Nu Genea) c’erano quasi 5000 persone in lista d’attesa su Dice, qualora qualcuno avesse rinunciato ad andare. Numeri che il festival ha mai visto. Mai. Ma anche Jazz:Re:Found è riuscito in quello che, nel primo anno a Cella Monte, pareva un obiettivo lontano, arrivare al sold out vero e reale: e un plauso va all’organizzazione che ha voluto mettere un cap invece di pensare all’incasso extra possibile, per far sì che la vita nel paese e fra i vari palchi e stand restasse sempre vivibile. E’ un festival dove ti muovi, cammini, stai bene, guardi i panorami, cose così; diventasse un incubo di sovrappopolamento, perderebbe molto della sua ragion d’essere e del suo fascino.
Questa è stata una estate di mille eventi in cui alcuni sono andati bene, alcuni benissimo, ma molti invece sono andati meno bene del previsto (e con artisti che invece per lo più si guardavano bene dal venire incontro ai promoter, “Eh sai con la pandemia ho perso un anno di lavoro, non posso abbassare il fee”, come se invece i promoter in questo anno e mezzo di pandemia avessero pasteggiato a caviale e champagne ogni giorno). Certi posti – ciao Riccione, come va? – che dovevano essere la Nuova Mecca da giugno a settembre lo sono invece stati, forse, solo ad agosto, e il fatto che in Puglia gli eventi principali siano andati complessivamente bene come numeri non significa che c’abbiano guadagnato tutti (i promoter) e che chiunque se la sia sempre vissuta benissimo (il pubblico). E’ stato un 2022 in chiaroscuro, come stagione estiva; e i veri nodi al pettine – quanto cioè gli organizzatori sono ancora solidi, quanto la gente ha voglia di musica, di ballare, di festival – verranno a galla solo col 2023.
Però dopo questa considerazione molto legata al business fateci parlare di musica, come considerazione finale. Dicevamo di come la galassia-Peterson sia ora molto di moda, piace alla gente che piace, eccetera eccetera; c’è questa gigantesca fascinazione per il jazz veicolato in contesti da clubbing, infarcito di richiamo afro, funk, elettronici, eccetera. Tutto molto bello, siamo contenti che ai “saputi” oggi piacciano Shabaka ed Alfa Mist come potevano piacere Richie e Ricardo nel 2001; ma è da dire che la deriva fusion è dietro l’angolo, anche per combo divertenti ed efficaci come Kokoroko. Un certo manierismo incombe, insomma, un modo “facile” di intendere il jazz, buono per stupire chi si è approcciato da poco a questa materia, con tanta competenza tecnica ma poca voglia di rischiare davvero, e invece una certa attenzione a passare subito all’incasso. Domi e JD Beck per ora volano più in alto di questo rischio perché si sente che hanno una preparazione che va in profondità, ma stiano attenti, perché sono talmente bravi che l’autoindulgenza è dietro l’angolo; ma gli stimoli musicali più interessanti sono venuti in parte da Maria Chiara Argirò – che alla scena del jazz londinese appartiene, ma si sta buttando verso l’elettronica à la Radiohead, e oggi questa è una scelta controcorrente rispetto ai desiderata del mercato della club culture – e soprattutto dai belgi Echt!. Loro, sì, strepitosi. Chi li ha visti, a Jazz:Re:Found, ne è rimasto praticamente mezzo sconvolto. Già sono interessanti su disco, ma dal vivo la loro trap/techno suonata senza computer ma solo con basso, batteria, chitarra e tastiere è qualcosa di davvero fenomenale. “Pensano” i loro strumenti in modo diverso, ecco: un po’ come facevano i Red Snapper negli anni ’90, o come fanno oggi gli strepitosi Elektro Guzzi con la loro minimal techno suonata solo da strumenti. Ecco, il jazz è (anche) questo: sorprendere, accidenti. Ampliare i confini. Non deve diventare museo, non deve diventare maniera, non deve diventare “abito elegante”. Quando il clubbing e un certo modo “progressista” di intendere la musica si approccia al jazz, deve saper mettere il suo tocco, l’orgoglio di sé. Ecco perché è importante che Jazz:Re:Found mantenga la sua varietà e il suo essere nobilmente “impuro”, visto che così l’approccio alla materia resta vivo e curioso, e in questo modo valorizza anche gli spazi “storici” – come quello molto bello curato da Rocco Pandiani con la collaborazione della piattaforma Qobuz sui brani che hanno fatto la storia del jazz; ed ecco che è giusto che Spring Atittude (o Viva!, per citare un altro festival riuscito al 100% quest’estate e che ha fatto nomi simili) chiami i Kokoroko o Alfa Mist, ma non deve pensare facendolo di aver avuto il “vero jazz” offrendo il palco a questi gruppi, perché il “vero jazz” è qualcosa di (più) sfaccettato ed anche (più) complesso, non è solo “la novità figa del momento tra chi con la musica deve darsi un tono”. Stiamo attenti a non farla diventare tale.
Echt!: strepitosi!
L’ultima postilla è per Ditonellapiaga. Che a Spring Attitude era una presenza per certi versi ovvia e naturale (il suo manager è anche il fondatore e direttore artistico del festival, e comunque appunto SA è da mo’ che si è aperto al pop “futurista-progressista”), a Jazz:Re:Found invece proprio una scommessa e un “E che ci fa una che era a Sanremo qui da queste parti? Stiamo scherzando?”. Lo pensavamo all’epoca delle prime release, adesso lo pensiamo ancora di più: lei è un talento strepitoso, una delle cose migliori successe alla musica italiana in tempi recenti. E’ pop sì, ma – grazie anche all’ottimo team di producer che la accompagna – è anche striature black, citazioni da club “intelligente”, classe ed incisività “fresca” nel songwriting, grandissima capacità di stare sul palco col giusto equilibrio tra carisma e comunicatività. Esageriamo? No. Chiedete agli scettici di Jazz:Re:Found, quelli che erano perplessi a vederla in line up, da gente intimamente scettica verso qualsiasi cosa puzzi di mainstream (e mica per forza a torto): a fine concerto, ne erano tutti conquistati. “Ehi: ma questa è brava davvero”. Beh, sì. Ed avere un act pop che sta bene nei festival “nostri” è, ricordatelo, una vittoria di tutti. Proprio di tutti.
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Post scriptum: se volete capire perché questi due sono festival dal tocco “umano”, più di tantissimi altri, pur radunando ormai migliaia di persone ad edizione e muovendo economie nell’ordine dei cinque zeri, ecco qui sotto il post bellissimo fatto uscire da Jazz:Re:Found a festival finito. Siamo umani, prima di tutto.