Facile (ma non troppo) radunare il meglio dei reucci del dancefloor del nuovo millennio. Facile (ma non troppo) radunare migliaia su migliaia di persone con la cassa in quattro a fare da piffero magico. Facile (ma non troppo) contare sugli spazi di una Fiera, quella di Mannheim, non troppo piccola da essere insufficiente ma non troppo grossa da essere ingestibile. Può anche essere che a fare le cose così sia tutto (più) facile, ma sta di fatto che l’amore che il Time Warp come evento è riuscito a ricreare attorno a sé è tangibile, ed è un risultato eccezionale. Non c’è bisogno di mettere piede dentro gli spazi del MaiMarkt, sede del festival, basta piuttosto tenere occhi ed orecchie aperte durante la marcia di avvicinamento (aerei, bus, treni e tram fino alla fiera di Mannheim): la gente urla entusiasta a ripetizione non “Richie”, “Ricardo” o “Sven” ma prima di tutto un continuo, ripetuto, gioioso “TIME WARP!!”.
La stessa gente accetta di buon grado di subire una gestione degli ingressi abbastanza improvvisata (crea una situazione logistica così, in Italia, e ti radono al suolo tutto in cinque minuti imbucandosi in migliaia), perché verso l’evento c’è amore e rispetto. Amore e rispetto che è facile respirare mentre poi ci si aggira per i cinque palchi, nel vialone centrale, perfino durante le file ai bagni. Nessuno – diciamolo come va detto – che rompe i coglioni, nessuno che strafà, nessuno che salta file, aggredisce, urta, eccetera. Certo non è tutto idilliaco, qualche testa di cazzo è fisiologico che ci sia in mezzo ad un pubblico dalle quantità a quattro zeri: ma come ci raccontava un nostro amico e collega su un’edizione di qualche anno fa, pure i borseggiatori se colti sul fatto ti chiedono scusa. Cose dell’altro mondo. Soprattutto se pensiamo a quanto può essere difficile gestire, in Italia, un Amore (nel senso del Capodanno romano) o un Movement. Sì, perché chi va a rovinare i Movement e gli Amore di casa nostra poi, quando arriva in Germania, sente il timore reverenziale verso il suolo tedesco: terra di ottima musica elettronica ma anche di rispetto religioso ai limiti dell’ottuso delle regole più banali di buon senso. E il metodo funziona.
Ma l’amore e il rispetto di cui stiamo dissertando non è solo patrimonio della gente pagante, no; lo si respira infatti anche tra i dj e i produttori, i quali tutti – è palese – ci tengono a fare bella figura durante il loro set timewarpiano, ad offrire cioè qualcosa in più o qualcosa di diverso. C’è chi ci riesce, e il primo della lista è sicuramente Henrik Schwarz, che per l’occasione si reinventa come producer techno – lui che di background arriva da house e addirittura jazz – e fa veramente un buon lavoro, mostrando di sapersi dare da un lato un “punch” degno di Liebing mantenendo però dall’altro una sua riconoscibile firma (certi riff di taglio quasi Weather Report, vedi alla voce Joe Zawinul). Secondi nella lista la “strana coppia” Luciano e Carl Craig, un duo che sulla carta ha poco da spartire ma che alla prova dei fatti è riuscito a trovare una chiave comune (techno agile, sorridente quasi, molto percussiva, con qualche concessione furba vedi i remix di Björk, e nemmeno troppo detroitismo e quasi zero minimaltechnismo). Dev’essere stato meraviglioso anche il set di Garnier e dei suoi due soci, ma era palesemente da seguire tutto d’un fiato senza interruzioni – solo che durava sei ore, e se uno voleva farsi un’idea complessiva di ciò che c’era doveva vagare, vagare, vagare.
Vagando, s’imbatteva in un’ottimo live degli Slam (geometrici ed efficaci) così come valido è stato quello di Planetary Assault Systems; incrociava la solita messa cantata di Sven Väth (esaltante ed efficace all’inizio, un po’ sulla corda nel finale, tra la terza e la quarta ora) e il solito “tremendismo” di Carl Cox (che però, diciamolo, è un po’ in debito d’idee rispetto a qualche anno fa); assisteva – un po’ sgomento – al discutibile set di Ricardo Villalobos, ormai molto più bravo a fare le mossette che a mixare e, soprattutto, insistentemente in cerca come dj di una identità sonora e lucidità che al momento gli vengono proprio inafferrabili. Chris Liebing è stato invece all’altezza della sua fama, Richie Hawtin per quello che abbiamo sentito pure, Loco Dice anche (ma a noi, diciamolo, lui proprio non piace: sopravvalutatissimo, a nostro umile modo di vedere). Brava poi Magda, più agile e funk del solito nel suo tessuto minimale, molto meglio del previsto anche Dubfire, con una techno rotonda ed infettata di bassi. Tanta roba, no? Eppure se andate a vedervi la line up di questa edizione 2011 noterete che in realtà un sacco di cose non ci sono nel nostro report. L’ubiquità, ci manca ancora; così come ci piace avere il gusto del limite, e se dopo dieci ore di festival sei non contento ma contentissimo, ti sembra inutile insistere con te stesso per fare la undicesima, la dodicesima, la tredicesima…
Mossette di Villalobos a parte, un’unica, vera delusione, ed è proprio strutturale: ok che con certe soluzioni di veejaying e di light design si possono fare magie, e sono state fatte (vedi i cubi nel Floor 2), ma la MaiMarkt è proprio una delle strutture fieristiche più tristi e bruttine che abbiamo mai visto. Il confronto con la Gran Fira sonariana dà un 5-0 a favore di Barcellona. Ma se il prezzo per mantenere le buone vibrazioni di pubblico e artisti è quello anche di tenersi il MaiMarkt, allora ben venga – si può fare, si può decisamente fare.