Inizialmente questo doveva essere un articolo che parlava di un quartetto di festival; e in realtà, tale essenzialmente resterà. Ma sviluppando in sede preliminare le bozze di ragionamento, ci siamo accorti passo dopo passo che quanto stiamo per scrivere si applica anche un po’ a tutti gli altri campi dell’ecosistema musica, così come lo conosciamo e frequentiamo noi qui a Soundwall. Esiste infatti un principio buono (quasi) per tutto e per tutti: se vuoi cambiare, che si tratti di modificarsi, evolversi, crescere, spostarsi, nulla ti vieta di farlo, ma nel farlo devi essere sicuro che questo cambiamento sia connaturato nella tua personalità e nelle tue attitudini. Se così, non funzionerà. O funzionerà solo a metà.
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JAZZ:RE:FOUND
Il primo caso non ha bisogno di troppe parole: perché ne abbiamo spese già abbastanza qui, e rischieremmo semplicemente di ripeterci. Riassumiamo il succo: quest’anno Jazz:Re:Found ha scelto come non mai di costruire una line up “ritagliata” sui gusti del suo team storico, senza porsi troppo il problema di chiamare dei nomi di richiamo più a trecentosessanta gradi e arrivando addirittura a piazzare sul Main Stage il sabato sera dei nomi in Italia a fama quasi zero. Un esperimento che fatto da altri avrebbe portato – è matematico – al flop, ma a JZ:RF hanno un misto di storia pregressa e di “coesione di sentimento” che rende possibili e financo vincenti questi azzardi. Chiunque altro ci provasse, farebbe una brutta fine. Ma tutto questo sta in piedi, a Cella Monte, (anche) perché negli anni è si è costituito in team di professionisti eccellenti, semplicemente eccellenti: ci vogliono quelli, anche nelle posizioni più umili e secondarie, per fare stare in piedi un festival basato sull’anima.
(Ezra Collective creano il delirio nell’ultimo giorno del festival; continua sotto)
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VIVA! FESTIVAL
Diverso, molto diverso è il caso di Viva!, almeno per quanto riguarda la questione artistica. Dopo una serie di edizioni assolutamente ottime dal punto di vista della direzione artistica (con l’apporto/collaborazione esterni prima di C2C, poi di 3D Agency) che lo hanno giustamente qualificato come eccellenza nel panorama nazionale dei festival, quest’anno si è deciso di rimescolare le carte, lasciando l’ingelligence tutta al proprio interno senza collaborazioni e co-conduzioni artistiche esterne (con al massimo un acquisto sul mercato locale, per quanto riguarda il team booking / direzione artistica). In questo caso la buona notizia è che sì, si vede che Viva! abbia cambiato pelle. Per quanto le precedenti fossero – ed eccome se lo erano – eccellenti dal punto di vista della proposta artistica e della coerenza culturale delle scelte, quest’anno si è scelto con coraggio e coerenza di spezzare questa solidità, con scelte più a trecentosessanta gradi, più “miste” insomma. I numeri hanno premiato: lo hanno fatto soprattutto grazie agli headliner, certo (Air il primo giorno, Underworld il secondo), ma non solo grazie a loro, come testimoniano le ampie presenze anche nei due giorni di contorno. C’era un'”aria buona” attorno all’evento (anche) quest’anno, quindi. Se un festival lavora in sincerità, la cosa in qualche maniera si avverte anche sul territorio: nel caso di Viva!, sarebbe stata una finzione continuare a tenere un profilo altissimo e molto “connotato” come quello (co)dato da C2C prima e 3D poi nelle edizioni precedenti, si è scelto invece di aprirsi mescolando di tutto un po’, con un approccio meno “verticale” ed intransigente. E questa mescola, a parte qualche eccezione terrificante come Nooriyah e il suo dj set discretamente imbarazzante, ha assolutamente funzionato: come numeri (mai Viva! aveva fatto questi numeri) così come esperienza complessiva (ma va rodata la logistica all’ingresso e ai bar, con la sede nuova: ci sta). Ad ogni modo: un successo pieno e rotondo, quest’anno, parlano i fatti. E allora qualche volta anche abbandonare dei modelli e delle scelte che sono raffinatissimi e di alta qualità porta al successo, a un successo ancora maggiore: a patto che la nuova strada che intraprendi sia sincera e coerente con te stesso, con quello che sei davvero in quel momento, e non altro.
(Quanta classe, gli Air; continua sotto)
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VOX MARMORIS
Vox Marmoris quest’anno era una bella sfida, già lo scrivevamo in sede di presentazione. L’edizione 2024 ha rappresentato infatti un deciso tentativo di salto di qualità rispetto al passato: una line up più nutrita, due giorni “veri” di festival invece di uno solo con l’aggiunta di un giorno preliminare “light” come si faceva in passato, vari eventi di contorno come e più del solito (talk, mostre, performance). Poteva cullarsi e bearsi degli ottimi risultati già raggiunti, Vox Marmoris, perché come abbiamo scritto più volte non esiste festival in Italia capace di attirare in un luogo così impervio – e così spettacolare! – così tante persone: trovarsi a ballare in migliaia circondati dalle Alpi Apuane e da cave di marmo strepitose è una esperienza più unica che rara, ma spesso location “difficili” fanno una selezione a valle, riducendo il numero di presenze. Vox Marmoris invece fin dall’inizio ha saputo convincere il comprensorio su come fosse una “festa” imperdibile, che valeva bene qualche scarpinata in salita o parcheggi molto distanti. Poteva accontentarsi di questo, ed era già tantissimo. Invece l’ambizione di chi lo ha fondato e lo guida, che è quella di crescere di livello a livello qualitativo anche a costo di correre il rischio di guadagnarci di meno e/o di non essere capiti dal proprio pubblico storico, lo ha portato a questa mutazione/accrescimento. Beh: ha funzionato. Come numeri, come atmosfera. Chiaro, la giornata-clou resta sempre il sabato, sold out spianato e gente indiavolata nella voglia di star bene, ma anche il venerdì con Danilo Plessow, Daniele Baldelli ed HAAi si è avuta una risposta di pubblico ottima, anzi, eccellente, e pure i talk nonostante il caldo feroce pomeridiano di quei giorni sono stati parecchio partecipati. Vox Marmoris sta diventando grande. Può farlo, perché chi lo ha fondato non si accontenta – e vuole andare in direzioni ben precise, culturalmente “spesse”, che non sono quelle della mera massimizzazione dei profitti.
(L’entusiasmo tra le Alpi Apuane e le cave di marmo, a Vox Marmoris; continua sotto)
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SPRING ATTITUDE
Last but not least, Spring Attitude. Che è appena terminato. E che – se frequentate un minimo i social la cosa è evidente – è piaciuto veramente tanto a tutti: in primis a quelli che l’hanno inventato, portato avanti, sorretto nei momenti più difficili così come in quelli più belli. La cronica difficoltà di Roma ad offrire delle venue stabili ed affidabili ha reso negli anni Spring Attitude vagabondo sia nei luoghi che nel calendario (sì, ricordiamolo, si chiama “Spring Attitude” perché originariamente si faceva a primavera), e quelle volendo sono cause di forza maggiore. Ma un altro aspetto in cui Spring Attitude è cambiato tantissimo è quello della linea artistica: in origine era un festival che era quasi uno spin-off di una club night (L-Ektrica), quindi a trazione marcatamente djistica, oggi invece la sua identità va prima di tutto nei live set, nella musica suonata, nelle chitarre, nel sudore, nel cantato; giusto a fine serata parte la “festa” definitiva coi CDJ sul palco e la cassa in quattro. Oggi Spring Attitude è più che mai il “mini Primavera Sound italiano”: lo è per la soluzione scelta del doppio main stage con due palchi uno affianco all’altro, lo è con la scelta del food (tanti piccoli punti vendita differenziati per offerta), lo è soprattutto per la linea musicale che è molto più indie che elettronica, molto più rock che clubbing, molto più da band che da dj, ma al tempo stesso tiene insieme tutte queste componenti facendolo con piglio ed impronta curatoriale ben presenti. Una impronta ed un piglio che hanno voluto ed imposto questo shift progressivo del DNA del festival, senza la paura di abbandonare i lidi sicuri del “festival di musica elettronica” (che è una Coperta di Linus che potenzialmente paga ancora molti dividendi, e che soprattutto permette di rendere più semplice tutto il processo produttivo e in fondo anche quello di promozione/comunicazione). SA è invece oggi un festival che mette come headliner i Viagra Boys (sempre goduriosi!), l’antitesi assoluta dell’elettronica esattamente come altri nomi in line up tipo Bar Italia (non male, ma…) o Bobby Joe Long’s Friendship Party (disturbanti ma coinvolgenti), però al tempo stesso rende la loro presenza perfettamente armonica con quella dei Kiasmos (un live da aggiustare nella prima parte, il loro), The Blaze (bravi), Barry Can’t Swim (banalotto), Acid Arab (divertenti!), Sama’ (fa il suo: mena). La cosa forse però più bella ed interessante di Spring Attitude è l’essere diventato palesemente “casa” per una musica italiano pop nuova: contaminata tanto con l’indie quanto con l’elettronica, ma senza la paraculaggine creativa del nazionalpopolare-battisti-nostalgia che da un lato è una ricetta per ora vincente, ci mancherebbe, dall’altro però ha trasformato l’indie italiano ma anche l’urban-grandi-numeri in un’accolita di conservatori della peggior specie, dove si ripetono sempre le solite formulette buone perfino per Sanremo, oltre che per i numeri in streaming. Cosmo non è così, Daniela Pes non è così, Whitemary non è così, Marta Del Grandi non è così, Mace (interessantissimo e pieno di rischi non canonici ma comunque compiutamente ballabili, il suo dj set) non è così, Emma Nolde non è così. Esiste una musica italiana che non si adagia nella bambagia del “tutto l’indie che c’è”, e che prova ad essere molto personale senza però per forza essere snobisticamente di nicchia. Esiste, sì, e Spring Attitude è diventato la sua casa d’elezione, assieme al Mi Ami (sempre sia lodato); ma contrariamente al Mi Ami, a Spring trovi anche nomi stranieri con cui è bello ed interessante confrontarsi, e con cui poi nelle ore piccole ti ritrovi comunque a ballare sulla cassa in quattro lanciata da un dj di peso. Spring Attitude insomma è un unicum, ora molto più di prima. Ed è andato esattamente nella direzione impressa da chi lo dirige: ora che le cose stanno andando bene puoi dire “Ma certo, era la cosa giusta da fare”, ma un po’ di onestà intellettuale dovrebbe far capire che scegliere di abbandonare la formula del solo-ballo-ed-elettronica, avventurarsi in territori che in Italia storicamente hanno fatto fatica (i festival “misti” live / dj), aggiustare il tiro nella comunicazione senza perdere per strada pubblico ma anzi guadagnandone, accettare di complicarsi la vita dal punto di vista della produzione tecnica (un concerto suonato resta sempre un casino rispetto a uno o due tizi in console), ecco, tutto questo era potenzialmente un suicidio economico, pratico, reputazionale. Spring Attitude invece arriva al 2024 in perfetta, perfettissima forma, con un pubblico più numeroso che mai e sempre molto bello: può guardare al 2025 con fiducia. Un 2025 in cui non è escluso che cambino, per l’ennesima volta, un po’ di cose. Ma tempo al tempo.
(In quale altro festival in Italia che non sia SA un artista come Whitemary può suonare di fronte a una folla così? Continua sotto)
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Qual è la morale, da tutto questo? Abbiamo raccontato di quattro festival che quest’anno sono andati molto bene ma che, per vari motivi, sarebbero potuti andare molto meno bene, visto il tipo di scelte perseguite. Tutt’e quattro però hanno testardamente perseguito quella che era la loro visione, ed è stata una direzione intrapresa senza porsi come unico criterio quello della profittabilità economica. Ecco: si può fare. Allo stesso modo, dal punto di vista economico la sostenibilità resta un fattore cruciale, perché altrimenti dopo un po’ ti fermi e basta, non puoi scialacquare soldi all’inifinito, ad un certo punto finiscono, la fase di “investimento” non può essere eterna (a meno che tu non viva di rendita, e allora in quel caso – bella per te). Il punto è che se metti subito al primo posto la massimizzazione del guadagno perdi l’anima (e si sfarina tutto), se pensi solo a perseguire l’anima dopo un po’ ti si affloscia tutto in mano perché non ti sei confrontato e parametrato col mondo reale, quello dove conta la conoscenza tecnica e pratica del campo in cui decidi di operare. Vale per chi fa i festival. Ma a ben pensarci, vale anche per chi fa musica tout court.