Probabilmente, andando ad analizzare quanto succede oltre le Alpi, si può partire dalle stesse premesse e arricchire il discorso con tanti altri casi in grado di perorare – o eventualmente farci rivedere – la tesi, ma siamo abbastanza certi di ciò che stiamo per dirvi. Nonostante il sistema “clubbing italiano” sia ricco di casi particolari, esempi in grado di fare giurisprudenza a sé, e nonostante spesso e volentieri si confonda come “scena italiana” quella facente capo solo ed esclusivamente ai club delle grandi città, non si può negare che la forza dell’intero movimento risieda tanto nell’energia sprigionata dai locali di Roma e Milano, quanto nella passione e nella resilienza di quelli di provincia. Quando sentite parlare i big dell’house e della techno del calore del pubblico italiano, è bene tener presente che non stanno parlando semplicemente dei dancefloor di Tunnel, Goa Club o Duel Beat: dare questo per scontato – e non guardare oltre – rappresenta una banalizzazione grave e imperdonabile che chi parla di musica elettronica (e chi se ne dice appassionato) non dovrebbe mai commettere.
Certo, tastare il polso di quanto succede nei grandi centri è importante, in quanto è lì che spesso e volentieri riescono a innescarsi quelle dinamiche in grado di sparigliare anche solo parzialmente le carte in tavola e riscrivere gli equilibri su cui si basa l’intero circuito, ma guai a non tener conto di ciò che fino a poco tempo fa è stato possibile trovare nei vari Porto Sant’Elpidio, Foligno, Terracina o Pescara.
La lista sarebbe potuta essere molto più lunga, ma per comodità e per snellezza di lettura, preferiamo circoscrivere l’elenco a pochi, ma significativi esempi; casi di club a cui siamo stati sentimentalmente molto legati nel recente passato e il cui stato di salute, ahinoi, rappresenta il termometro dell’attuale underground italiano. Ma se la mappa del clubbing italiano è tanto variopinta quanto quella dei Comuni della Penisola nel tardo Medioevo, lo è altrettanto quella delle cause che ne hanno decretato la difficoltà iniziale, la crisi successiva e la morte finale: considerare N cause, vuole dire dover tener conto di N problematiche diverse. Alcune gravi come una malattia terminale (meno di quel che immaginate); altre sintomatiche di un problema latente e orizzontale che ha trascinato in piena crisi l’intero movimento di provincia (la maggior parte).
Un tempo, nemmeno troppi anni fa, ogni regione poteva contare diverse realtà in grado di dare sfogo alla voglia di musica di migliaia di giovani appassionati che, legati a doppio filo con resident e party decisamente fuori dall’ordinario, popolavano i relativi dancefloor ogni weekend. Oggi, mentre i club delle grandi città vivono flessioni più o meno sanguinose, i club di provincia (salvo rarissimi casi) non esistono proprio più.
Ma come è potuto succedere? Possibile che, quasi simultaneamente, siano saltati tutti gli equilibri politici in grado di fare da garanzia a promoter e proprietari di locali? Possibile che ovunque ci sia un questore che vede male tutta questa gioventù che vuole tirare mattina e vaffanculo-alle-lasagne-di-nonna-la-domenica? Non prendiamoci in giro, perché non siamo scemi: tutte queste criticità ci sono sempre state, ma (solo) oggi hanno rappresentato la goccia in grado di far tracimare un vaso già colmo.
Il problema è un altro, ed è molto più semplice di quel che sempre più spesso ci piace raccontarci: qualcuno o qualcosa sta ammazzando la scena e i club di provincia ne sono state le prime vittime.
Potremmo dire che a far del male ai club di mezzo mondo – e in particolar modo a quelli italiani – siano stati gli stessi dj, per mano delle loro agenzie. E, vedete, assumendo questa posizione non ci andremmo nemmeno tanto lontano, ma a nostro modo di vedere ci stiamo solo avvicinando alla vera causa del problema. Perché dire che Dixon, Villalobos, Garnier e Peggy Gou costano “troppo” è un discorso che, a suo modo, regge pure: alla fine lavorano poche ore, spesso sono coinvolti il giusto con quanto li circonda (spesso sarebbe impossibile chiedere di più) e non si fanno troppi problemi a scegliere nuove e più remunerativi opportunità. Ma i dj, come gli sportivi famosi e la nuova Crema Pan di Stelle, altro non sono che un prodotto e il loro prezzo lo fa il mercato. Se un promoter – a nostro avviso sbagliando, ma questa resta una semplice opinione – pensa di poter sopravvivere “alla tempesta” solo alternando in consolle Nina Kraviz, Amelie Lens e i The Martinez Brothers la colpa non è solo sua. La responsabilità è di chi fa il prezzo, e quindi la domanda, e quindi tutti noi, che usciamo di casa solo se solleticati dall’idea di essere di fronte a una faccia da copertina, un artista da centinaia di migliaia di views su Youtube. Siamo noi che stiamo uccidendo la nostra scena, a cominciare dai club di provincia, rendendo arido come poche altre volte nella nostra storia un movimento capace di abbagliare il mondo per energia e talento.
Perché, vedete, sembra ormai sempre più evidente che al cosiddetto “appassionato” basti premere play all’ultima Boiler Room per dirsi al corrente di quanto sta succedendo nel club di mezzo mondo; oppure, nella migliore delle ipotesi, presenziare al Berghain o al Dekmantel o al Sónar una o due volte l’anno per potersi dire appagato. Ma accorciare le distanze attraverso la tecnologia non può e non deve bastare: la nostra forza, a ogni latitudine, è stata la militanza, soprattutto nei piccoli centri, dove piccoli miracoli proliferavano e regalavano momenti di cultura e socialità impagabili. L’assidua frequentazione dei club, ovunque questi si trovassero, da parte di un pubblico appassionato come pochi altri al mondo, è stato il seme in grado di far germogliare quelle eccellenze che veramente ci venivano invidiate ovunque.
Tutto nasce – e si è sempre sviluppato – partendo dal proprio club “del cuore”, quello che fino a non troppo tempo fa era in grado di coltivare la curiosità di una scena a cui non bastavano (e non potevano bastare) podcast, streaming e classifiche. Men che mai le storie su Instagram. Faremmo bene a ricordarcene se non vogliamo che tutto questo vada perso, magari riportando tutto a un livello più “semplice” e diretto, dove a comandare sono solo la musica e le emozioni. Rigorosamente dal vivo.
(foto di Antonio La Grotta, tratto dalla serie “Paradise Discotheque”)