Abbiamo parlato spesso e volentieri del Torino Jazz Festival nelle sue ultime edizioni, quelle con Giorgio Li Calzi e Diego Borotti sulla plancia di comando. Lo abbiamo fatto per la qualità della proposta artistica. Lo abbiamo fatto perché ha imboccato una direzione che per noi è vitale: quella di rendere il jazz un termine vivo e contemporaneo, riportandolo nel qui&ora, senza però cadere in facili e paraculi crossoverismi. Lo abbiamo fatto perché non era facile risorgere dalle ceneri dei gigantismi di qualche anno fa, quando – in pieno stile Coppa Cobram fantozziana – la presenza in posizioni apicali di un importante uomo politico innamorato del jazz aveva reso il Torino Jazz Festival una astronave “piovuta” ed imposta dall’alto, con gigantismi produttivi forse imposti ma sicuramente fuori scala, e con in realtà uno scarso dialogo reale con chi il jazz in città e in regione lo respira, lo fa, lo porta avanti quotidianamente partendo dalla base, dalle basi. Oh, ci fa piacere che ci siano uomini politici che amano il jazz: bravi, bene. Ma ci fa molto dispiacere, ed è anche il caso dell’ex ministro Franceschini e non solo della summenzionata figura apicale torinese, quando l’amore per il jazz si traduce in un trattamento di favore per questo genere musicale nei contributi istituzionali e, a corollario, nel completo ignorare tutto ciò che è il resto della contemporaneità musicale: come se già supportare il jazz fosse una medaglia sufficiente, nella battaglia per sostenere musiche non classiche ed operistiche (…perché è in primis nella classica e nell’opera che si annidano ancora rendite di posizione spa-ven-to-se, che tengono in vita sacche di inefficienza, di baronato, di pigrizia programmatica, cancro della vita culturale e dell’impresa nello spettacolo in Italia. Per tutto il resto ma anche e soprattutto per questo, c’è It’s Art).
Il jazz è vivo. Il jazz è una delle musiche più contemporanee che ci siano, in assoluto, pur avendo un patrimonio storico importantissimo che non va disconosciuto (e non va gettato via, tipo bambino con l’acqua sporca, nell’ansia “nuovista” e crossoverosa). Ecco: ci era piaciuto molto il Torino Jazz Festival di Li Calzi e Borotti.
…ed era piaciuto parecchio anche al pubblico, con tutta una serie continua di sold out. I contributi pubblici (che c’erano; dimezzati rispetto ai tempi della grandeur, ma c’erano) sono stati usati in primis per offrire a prezzi calmierati i concerti più importanti – e questo ci sembra il modo più intelligente di usarli, meglio ancora del “tutto gratis per tutti”, che spesso fa un po’ concessione-graziosa-dell’-imperatore. In più il programma si “espandeva” spesso e volentieri, con incontri non strettamente musicali e con una serie di gemmazioni negli avamposti storici del jazz torinese così come in location non convenzionali, oltre che con un notevole numero di produzioni originali, commissionate proprio dal TJF. Insomma: tutto fatto a modo. Tutto fatto con competenza sia artistiche che organizzativa che – come dire? – ideale. Un bel blueprint sul “come fare un festival”.
Bene: come nei peggiori momenti cialtroneschi della politica italiana, tutti questi meriti sono venuti a cadere di fronte a una constatazione molto semplice e tribale. Ovvero: Li Calzi e Borotti sono stati scelti e nominati dalla amministrazione precedente, leggi giunta Appendino? Bene: ora che c’è stato il cambio della guardia, col ritorno del PD alla guida della città, LI Calzi e Borotti sono stati fatti fuori, zac. Mefistofelicamente, poi, al loro posto è stato rimesso il musicologo Stefano Zenni, ovvero colui che aveva guidato il Torino Jazz Festival negli anni precedenti, quelli della grandeur e dei contributi istituzionali a sei zeri (in condizioni non facili: molti errori e battute a vuoto non erano infatti nemmeno colpa sua ma dei desiderata – here we go again – della politica cittadina, ma tant’è). E se per certi ci può anche stare che chi comanda decida chi fa cosa, in città, al tempo stesso fare strage così schiettamente del principio di merito e competenza (merito e competenza Li Calzi e Borotti li hanno dimostrati coi fatti) è un misto di cafonaggine, arroganza e cialtroneria. Anche perché, nel comunicato ufficiale che annuncia il cambio della guardia, non è stata spesa nemmeno una parola di ringraziamento per le due persone che hanno trasformato il Torino Jazz Festival da gigante coi piedi d’argilla non proprio ben voluto in città ad uno dei festival dall’atmosfera più positiva e partecipata in assoluto.
Nemmeno una.
Quale la colpa di Li Calzi e Borotti, per non essersi beccati manco un “Grazie”? Forse proprio l’essere stati bravi, aver lavorato bene. Rendendo così più difficile e più questionabile l’esecuzione del solito, stolido spoil system. Quello per cui quando cambia il potere, deve cambiare un po’ tutto: per far capire chi comanda (…o, come in questo caso, chi è tornato a comandare).
Auguriamo a Stefano Zenni di costruire un bellissimo prossimo Torino Jazz Festival 2023: pieno di vita, anima, gusto, senso delle proporzioni e vitalità, come le edizioni degli ultimi anni. Ma non possiamo che considerare male tutti i contorni e le dinamiche di questa brutta storia. Un regolamento di conti tra regnanti (PD) ed ex regnanti (la stagione Appendino), questo è, nient’altro: ma ad andarci di mezzo, guardo un po’, sono la bravura e la competenza. Che fortuna.
Freak Antoni diceva: “Non c’è gusto in Italia ad essere intelligenti”. Beh: anche a fare le cose bene, anche ad essere cioè bravi e competenti, non è che te la passi proprio benissimo.