E’ curioso come, girellando fra i social, la reazione di molti sia stata “Oh, finalmente Four Tet è tornato”. Più specificatamente, è la reazione di chi segue Four Tet dal giorno uno, di chi non solo l’ha approcciato con “Rounds” ma magari lo aveva nei propri radar (e nei propri ascolti del cuore) pure da “Dialogue” e “Pause” (due dischi della madonna peraltro, soprattutto il secondo): perché diciamolo, il Four Tet che ha l’epifania per la club culture facendo il dj nella terza sala – praticamente i bagni – del The End è una storia che entusiasma chi alla club culture appartiene, ma per più d’uno della vecchia guardia è un “si è fatto rapire dai barbari, e ora l’abbiamo un po’ perso”. C’è chi lo ammetterà chiaramente, chi negherà, ma saremmo pronti a mettere una discreta sommetta sul fatto che sia così, se ci fosse una macchina della verità a nostra disposizione.
Poi ci sono tutti gli altri. I barbari, per l’appunto. Quelli che a sorpresa hanno adottato Four Tet (in realtà non sarebbe né il primo né l’ultimo che parte facendo cose storticcagnole e complicate per poi provare a raddrizzarle, per vedere l’effetto che fa), ne hanno subito votato la genialità (perché a lui e non ad altri? Davvero difficile rispondere, anche perché Four Tet è uno che se ne frega altamente delle PR), se ne sono soprattutto serviti per scoprire che esiste anche un altro mondo oltre alla tech-house più o meno minimale di matrice tedesca (alleluja). Lo hanno scoperto, questo mondo, grazie a lui e a Holden. Poi Holden, che sembra tranquillo ma in realtà è uno pignolo e stizzoso, ai barbari prima dava esplicitamente degli “idioti” (“The Idiots Are Winning”) e ora fa pure di peggio, li evita; Four Tet, che è invece uno più furbo e più pacioso, ha pensato unicamente ad esplorare meglio un mondo che lo incuriosiva. Che poi nel frattempo questa esplorazione, magia!, facesse decuplicare il suo cachet era un effetto collaterale inaspettato e accolto con un sorriso e un’alzata di spalle, non un obiettivo strategicamente perseguito.
Ecco. Tutta questa contestualizzazione per far capire perché in molti stanno scrivendo, riguardo a “New Energy”, “Four Tet è tornato”. Sbagliando. Il Four Tet da cut&paste degli esordi in realtà non è tornato. A occhio, non esiste più. E’ stato rimpiazzato da un uomo che, dopo aver sciacquato i panni nel club invece che nell’Arno, si è fatto più consapevole, più calcolatore (nel senso buono), più ingegnere e meno bricoleur, più attento a mirare al centro e a lavorare solo attorno all’essenziale. Non a caso, il dancefloor è la patria dell’essenziale. Da sempre. Avrà imparato da lì. E’ vero che “New Energy” ritrova atmosfere più dimesse, più intime e/o più pastoral-elegiache, ma l’approccio generativo di Kieran è decisamente quello degli ultimi lavori dance-oriented, non quello degli esordi. Quella è l’essenzialità, quella è la chirurgica fiducia nel dosare gli elementi, quella l’attenzione ai suoni. Stavolta al servizio anche di cose che non sono spiccatamente danceflooriche, a parte qualche episodio (la riuscita “SW9 9SL”, la quasi altrettanto riuscita “Planet”).
Il Guardian, stronchicchiando il disco, ha scritto che in questo “New Energy” di energia in realtà non ce n’è molta. Comprendiamo la critica, ma è ingenerosa. In realtà siamo abbastanza convinti che la “New Energy” di cui parla Four Tet è quella data dall’aver (ri)aperto lo sguardo ad oriente: un tempo si direbbe world music, ora non si può dire più, però si sente che i viaggi sonori in certe zone oriental-musulmane (intrapreso, sotto forma di varie playlist pubbliche, in spregio a Trump) hanno giocato un ruolo decisivo. La “nuova energia” è “nuova ispirazione”: “nuova” anche nel senso di “non sempre i soliti posti, i soliti riferimenti, i soliti luoghi”, che sia il post rock, che sia l’indietronica o che sia il clubbing. Tutto questo lo aiuta ad essere più ispirato? Nì. Lo aiuta di sicuro ad essere più vario ed interessante, questo sì, non si ha mai l’impressione – che invece affiorava in più d’una delle release precedenti – che il nostro vada avanti col pilota automatico. Si vede che ci tiene, che si è sforzato, c’ha lavorato d’ingegno sopra, pur restando nell’essenzalità di cui si diceva nel paragrafo precedente.
C’è un unico vero gioiello, in “New Energy”, ed è “LA Trance”: un punto d’incontro tra Holden e i Boards Of Canada pieno di microsoluzioni saporitissime e suggestive. Ci sono poi varie tracce buone (“You Are Loved”, ad esempio, calda ed elegante coi suoi breakbeat equalizzati strani, le già citate tracce dance, a cui aggiungere “Scientists”), c’è qualche pezzo invece un po’ petulante (“Lush” con una hang drum facilona che se ne poteva fare a meno, “Two Thousand Seventeen” un po’ troppo estenuata e compiaciuta, “Daughter” che tanto promette e mantiene così così). Complessivamente, è un disco involontariamente furbo: scalderà il cuore ai fan del vecchio Four Tet, affascinerà coloro che lo hanno scoperto solo dal 2010 in poi (vedi ad esempio i peana di XLR8R). Epperò siamo convinti che fare un disco furbo non fosse il vero obiettivo di Hebden, occhio: il suo obiettivo era fare – finalmente! – un disco, un album, una storia personale, mettendoci tutto se stesso. Quanto è pesante questo “tutto”, oggi? Non abbastanza da fargli meritare l’appellativo di genio, sufficiente però per farlo considerare uno di quelli bravi, uno di quelli che è sempre il caso di stare a sentire che diavolo ha da dire ed offrire. E pazienza se non è “tornato”.