Mettetevi comodi, perché quella che vi apprestate a leggere non è la solita intervista, piuttosto è la vita di un musicista (condensata quanto basta, ovviamente), che risponde al nome di John Montoya. Il violinista e produttore originario di Pereira, Colombia, si racconta sulle nostre pagine alternando i colori caldi e un po’ sbiaditi dell’infanzia vissuta in Sudamerica, con il suo fulgido presente, che parla sì italiano ma che si arricchisce di spunti e riflessioni dal mondo conosciuto e persino da quello mistico e invisibile, tipico della sua cultura. Ma c’è di più, perché Montoya ci regala, in anteprima italiana, “Solo Quiero”, un nuovo brano – con relativo video a cura del giovane talento delle arti visive Daniel Angarita – che funge da gustosa anteprima riguardo a ciò che verrà (il nuovo disco “Otun” in uscita per la prestigiosa ZZK Records di Buenos Aires il prossimo 3 maggio). Spoiler: la sua personale visione di musica tradizionale è sempre più contaminata dalla club culture. Buona lettura (e ascolto!).
Mi piacerebbe partire da te piccino in Colombia, quali sono i primi ricordi che ti vengono in mente?
Non so come funzionano queste cose, ogni tanto riaffiorano dei ricordi, soprattutto legati ai cinque sensi. Per esempio quando vedo certi colori, il salmone oppure l’arancione, mi tornano in mente alcuni giocattoli di quando ero piccolo. Mi piacevano molto delle macchinette, di latta o di legno, che avevano proprio quei colori e con cui giocavo simulando corse e inseguimenti, che poi erano le cose che si vedevano di più in tv durante gli anni ’80 della mia infanzia. Altre volte mi capita di sentire un certo odore e, allo stesso modo, mi tornano in mente delle immagini, come quando il profumo di pulito mi riporta al tempo in cui mia mamma puliva tutta la casa.
Quale musica ascoltavi, assieme ai tuoi genitori, a quei tempi?
La musica era ovunque, sia a casa che fuori. C’è questa usanza in Colombia di tenere sempre accesa la radio, praticamente ventiquattrore su ventiquattro, e a casa nostra era uguale. Poi, a seconda del periodo, la programmazione cambia, quindi ricordo che a gennaio c’era musica più romantica, mentre a fine anno c’è più voglia di ballare e quindi dalle radio usciva soprattutto la cumbia. Mio padre ascoltava tanta musica spagnola, per esempio quella di Joan Manuel Serrat, mentre mia mamma aveva una passione per le cose più sentimentali e ascoltava Lucio Battisti, Mina, naturalmente tradotti in spagnolo.
Davvero? Quindi arrivava tanta musica italiana, dalla cosiddetta leggera a quella dei cantautori.
Sì, era un continuo fluire di musica italiana, certe volte in lingua originale ma soprattutto tradotta, perché c’erano alcune emittenti specializzate in questo. Inoltre ciascuna stazione radiofonica proponeva un genere ben preciso, aveva una propria filosofia. Infatti c’era anche un canale di sola musica classica, di cui mi interessai quando ho iniziato a suonarla.
Come ti sei avvicinato alla musica classica?
Si tratta di un percorso molto lungo, che ebbe inizio addirittura nella testa di mia madre, prima ancora che nascessi, per quanto lei amava la musica. Quando poi si presentò l’occasione, negli anni ‘90, di farmi cantare in un coro, che voleva essere il corrispettivo colombiano de “I Piccoli Cantori di Vienna”, la colse subito, trovandomi entusiasta. Fu proprio mia madre a darmi le prime lezioni di canto. Passai le audizioni e mi ritrovai in questo coro, a nove anni, ma era molto di più di un semplice coro, diciamo che era una vera e propria scuola di musica pomeridiana. Avevamo dei professori fantastici, che tutt’oggi sono attivi in Colombia. Si tenevano lezioni di solfeggio, di canto, di ascolto, quest’ultima era la mia preferita, perché ci facevano studiare tutti i tipi di musica, dalle opere mozartiane alla musica brasileira. Questo corso fu fondamentale, perché è così che imparai ad ascoltare davvero la musica, nella sua complessità ma pure nel suo essere una cosa semplice.
Ricordi qual è stato il primo disco che hai amato?
Sì, eccome, io amavo Michael Jackson! Era la fine degli anni ’80, quindi era all’apice della sua carriera, e sentire quella voce, e vedere quei suoi video, fu per me un colpo al cuore. Mi piaceva tutto l’immaginario che si stava costruendo attorno e quando mia madre mi regalò il vinile di “Bad”, per non aver perso nemmeno una lezione tra scuola mattutina e impegni musicali pomeridiani, puoi immaginare la mia reazione. Consumai letteralmente il disco.
Come ti sei avvicinato, invece, alla musica suonata? Se non sbaglio il tuo strumento prediletto è il violino.
I ragazzi più bravi della mia scuola suonavano il flauto e io non volevo essere da meno, però durò poco perché avevo le mani troppo piccole e quindi provai con il violino. Più lo suonavo e più mi piaceva. Mentre iniziavo a specializzarmi, nella mia città che si chiama Pereira, alcuni politici colombiani introdussero un sistema di orchestre prendendo spunto dal modello d’eccellenza venezuelano chiamato “El Sistema”, fondato da José Antonio Abreu Anselmi. Così, in breve tempo, mi ritrovai coinvolto come secondo violino in questo ambizioso progetto chiamato “Batuta”.
(Un giovane Jhon Montoya con il suo strumento prediletto; continua sotto)
Da suonatore di violino nelle orchestre colombiane come sei finito in Italia?
Suonare lo strumento a un livello buono mi ha portato ad essere nella fila dei primi violini dell’Orchestra Filarmonica del Valle, ma a un certo punto il mecenate che la sovvenzionava, integrando i fondi governativi, si stufò e sciolse la compagnia. Ricordo che era un gennaio e ci dissero che avremmo avuto economie solo fino al giugno seguente. Tra il tornare a casa oppure giocarmi la carta dell’esperienza in Europa, cosa che avevo in mente già da un po’, decisi naturalmente per la seconda e mi trasferii in Italia, più precisamente in Veneto, dove già viveva mio fratello.
La scelta di trasferirti in Italia è stata dettata anche da una certa instabilità politica colombiana?
Diciamo che prima di tutto c’era il volere artistico di proseguire gli studi in un certo modo. Sai, noi non abbiamo mai avuto crisi particolari, più che altro in Colombia c’è un’instabilità costante, come una sorta di dolore continuo a cui uno poi uno finisce per abituarsi… poi dipende ovviamente da dove sei e cosa fai, nei grandi centri si è più al sicuro, come mimetizzati, si è parte del tutto.
Giunto in Italia hai proseguito lo studio del violino presso il Conservatorio “A. Steffani” di Castelfranco Veneto, giusto?
Sì, ma prima, dal 2005 per tre anni, ho lavorato facendo un po’ di tutto, dall’imbianchino al cameriere. Poi ho sentito proprio l’esigenza fisica di tornare a suonare e così mi sono iscritto al conservatorio qui in Italia. Quest’esperienza si è conclusa l’anno scorso, con la mia laurea. Sto comunque proseguendo il percorso con il Biennio in musica elettronica e sound design.
Quando è arrivata, invece, la passione per i suoni elettronici?
La curiosità circa l’elettronica c’è sempre stata, fin da tempi in cui ascoltavo la musica di Robert Miles, giusto per farti un nome, ma poi, all’incirca nel 2010 quando già ero in Italia e avevo riabbracciato attivamente il mondo musicale, ho colto l’opportunità di lavorare all’interno di “Fabrica”, il centro di ricerca creativa di Treviso, che mi ha dato la possibilità di realizzare i miei primissimi progetti musicali: “El viaje” e “Mohs”. Mentre il primo ha sonorità più acustiche, pur indagando il violino a 360° e quindi anche in modo non proprio convenzionale, il secondo è già più sperimentale. Magari “Mohs” non era ancora un disco elettronico per ballare, ma conteneva già i semi di ciò che poi sarebbe diventata la mia musica col moniker Montoya.
La componente “ballabile” è assai importante per te, ho capito bene? Quindi reputi che ci sia una certa separazione tra musica per ballare e quella d’ascolto.
Diciamo che l’aspetto del ballo mi interessa di più adesso che prima, però sì, trovo che la danza sia una componente importante e credo anche che esista una musica fatta per far muovere il corpo, che poi magari uno l’ascolta anche ballando, oppure l’ascolta stando fermo, come preferisce, insomma la fruizione puoi viverla come vuoi. Ma è indubbio che ci sia della musica che ti fa muovere di più, che poi è quella che il buon dj sa dosare e scegli quando vuole unirsi in modo più “fisico” col pubblico.
Nel 2015 c’è stato un punto di svolta: per la White Forest Records è uscito l’album “Iwa”.
Quella di “Iwa” per me è stata davvero un’esperienza importantissima. I ragazzi della White Forest mi hanno dato carta bianca e questo ha fatto sì che io maturassi una certa consapevolezza su quello che era il mio approccio produttivo. Inoltre, con questo disco ho iniziato a divertirmi davvero con l’elettronica e a trovare un equilibrio tra musica classica ed elettronica, in modo molto organico, anzi direi proprio naturale. Ti racconto un aneddoto: solitamente traggo ispirazione dai viaggi e al tempo di “Iwa” avevo programmato di andare in Islanda. Prima di partire avevo già una bozza del disco, ma poi ho ascoltato così tanta musica a Reykjavik che di ritorno ho cambiato molte cose, mi sono lasciato andare di più, osando per il gusto di vedere fino a che punto potevo spingermi.
Luce e ombra, riflessione e ritmo, neo-classica ed elettronica, trovo che la tua musica sia viva di contrasti, che poi riesci ad amalgamare/sintetizzare in modo assai personale e compiuto. Come ci riesci?
Ti ringrazio, credo di aver capito cosa intendi, diciamo che mi facilita il considerare il disco come un concept, quindi come un discorso che abbia un’introduzione, un corpo centrale e una fine. Questa attitudine me la porto dietro dai tempi di Fabrica e credo molto che sia il dovere di ogni buon compositore quello di creare un lavoro organico e non solo un insieme di singole tracce.
Arriviamo all’oggi: ci stai regalando l’anteprima italiana di “Solo Quiero”, il primo singolo tratto dal tuo nuovo disco, “Otun”, uscita il prossimo 3 maggio. Ho l’impressione che tu stia progressivamente avvicinando la tradizione musicale alla club culture. È una supposizione corretta?
Assolutamente sì, in questa fase della mia carriera artistica trovo che il ritmo sia ciò che voglio indagare di più. Questo non vuol dire che farò solo musica per ballare, ma mi piace trovare il giusto spazio per la testa e per il corpo, che poi è anche un modo per riavvicinarmi alla mia terra, la Colombia, dove la musica deve avere il ritmo, per forza, fa parte di una tradizione più antica di noi.
(Soundwall Premiere: “Solo Quiero”, video di Daniel Angarita; continua sotto)
Com’è nata “Solo Quiero”? Magari ricordi da quale elemento sei partito nella sua costruzione.
È nata tanti anni fa. Un giorno stavo facendo esercizi di armonia e studiando una cantata di Bach, ho scoperto questi due accordi di settima e mi sono detto wow, devo estrapolarli dal discorso specifico e metterli in un mio pezzo. Mi sono sembrati fin da subito così moderni per attitudine e sonorità. Quindi li ho registrati ed ho cercato di costruirci attorno un brano, che però non mi convinceva mai. Recentemente mi sono ricordato di quel file e ho aggiunto più ritmo e la cosa sembrava funzionare. Il tocco finale ce l’ha messo Pedrina, che è una musicista che seguo da tanto tempo. Mi ha mandato la sua prima take e tutto mi è sembrato perfetto fin da subito, il pezzo che potete ascoltare è proprio la primissima registrazione della sua voce.
Il video che l’accompagna è stato realizzato da Daniel Angarita. Com’è nata questa collaborazione?
Daniel aveva già lavorato in passato con Pedrina, che oltre a cantare nel pezzo è anche la protagonista del video. Abbiamo deciso di assecondarla il più possibile, in modo di lavorare al meglio e di farla sentire a suo agio. Daniel si è dimostrato la scelta giusta, perché è riuscito ad incarnare visivamente l’idea, sensuale e giocosa, della canzone.
Ogni disco racconta una storia, qual è quella di “Otun”?
Otun è il nome del fiume che passa sotto la mia città natale, che poi è lo stesso che viene dato a tutta la vallata in cui sono cresciuto. La mia cittadina infatti viene generalmente chiamata “la perla dell’Otun”. Quindi, per me il disco rappresenta un fluire sonoro, che parte da dove sono nato e va lontano… seguendo le mie tracce e spostamenti.
Quanto studio c’è dietro a “Otun”? Intendo a livello di scrittura, composizione, ricerca dei campioni, e delle voci.
Ci ho lavorato praticamente per tre anni. C’è stata una prima fase, due anni fa, in cui mi sembrava già pronto, a parte il mix finale intendo, ma poi facendolo ascoltare un po’ in giro, ad amici ma anche ad alcuni produttori che ho avuto la fortuna di incontrare durante il percorso, ho compreso che il progetto aveva bisogno di più lavoro. Mancavano ancora delle voci, mancava una certa qualità nei suoni, sono arrivato a mettere in dubbio la struttura stessa di alcuni brani. Il punto di svolta è arrivato quando sono entrato in contatto con la ZZK Records, l’etichetta per la quale esce il disco.
Come sei entrato in contatto con la ZZK Records di Buenos Aires?
Quando uscì Iwa mi contattò Nicola Cruz spendendo per me bellissime parole. Qualche tempo dopo inserì alcuni miei brani in un suo mixtape e così fece conoscere la mia musica ai suoi amici della ZZK. Ebbi modo anche di far ascoltare Otun, quando ancora era in una prima veste non definitiva, al fondatore dell’etichetta, Grant C. Dull, che mi diede dei suggerimenti preziosi su come procedere. Loro hanno una visione della musica molto interessante, sono partiti nel 2008 producendo dei lavori che potessero rendere moderno certo folklore sudamericano, partendo dalla tradizione argentina ma aggiungendo mille sfumature diverse. Oggi sono diventati un incubatore gigantesco di creatività e sono super orgoglioso di farne parte.
Ti sei fatto un’idea di come ha fatto la cumbia da musica-canto-danza popolare colombiana a diventare un fenomeno globale?
Credo che la sua riattualizzazione non sia solo una moda, o almeno non lo è per i produttori che conosco. La cumbia non è solo musica ma è un modo di vivere, che tiene conto della spiritualità ancestrale di ciascuno ma pure della terra dalla quale proveniamo, è un modo per dire grazie. Poi, c’è anche una componente di passionalità che si esprime attraverso di essa. Per come la vivo io è come se incarnasse un certo bisogno dell’artista di ricollegarsi con le proprie radici. Nel resto del mondo magari si coglie subito la forza del ritmo, che è unico, ma la differenza sta in tutto ciò che non si sente e vede.
I campioni che usi nella tua musica – le voci sciamaniche; i canti tribali – provengono dalla tradizione sudamericana?
Purtroppo no, questo accadrà nel momento in cui deciderò di registrare direttamente sul campo. I campioni che uso sono presi in gran parte, previa gentile concessione, dall’opera di Thomas Roeberts e dalla comunità Embera. A fare la differenza è come queste registrazioni vengono elaborate e, soprattutto, in quale contesto vengono inserite. Ricordo che una volta lessi una cosa simile in un’intervista a Clap Clap, in cui le voci sui suoi dischi, che sembrano in tanti casi essere africane, in realtà provengono da fonti imprevedibili.
Cos’è per te il misticismo e quanta parte di questa cultura entra nella tua musica? Se non erro lo stesso titolo “Iwa” faceva riferimento al regno degli spiriti del mondo e ad antichi rituali.
Nella tradizione sudamericana ci sono tanti riferimenti al mondo nascosto, alle energie che muovono tutto e quindi c’è una predisposizione naturale a credere in ciò che non si vede. Io pure ritengo che ci siano delle forze o, se vuoi, delle frequenze, che si propagano per esempio attraverso la voce, attraverso la musica, ed è quello che cerco di fare pure io, di trasmettere agli altri le mie vibrazioni, la mia essenza spirituale, per far ballare o semplicemente per farla fruire, per far vibrare i sensi di chi ascolta.
A proposito di ascolti, c’è qualche disco altrui che recentemente ti è piaciuto parecchio?
Non riesco a staccarmi dall’ultimo disco dei Maribou State, “Kingdoms In Colour”. Ah, e poi un altro grande disco che sto ascoltando è All Against Logic di Nicolas Jaar. Ma ascolto di tutto e quando ho tempo mi dedico alla ricerca di musica nuova che possa darmi spunti per le mie cose.
Cosa ti piacerebbe fosse più presente nella musica contemporanea?
Mi piacerebbe che ci fosse più consapevolezza su ciò si fa e anche da parte di chi ascolta. Il rischio è di considerare la musica senza il contesto che c’è intorno, che poi è quello che è successo per esempio a certa musica new age, è diventata finta, un mero sottofondo. Se si produce, o si ascolta, giusto per moda e senza riflettere un po’ è come mettersi in giardino un albero senza frutti. Magari si balla ed è ok, ma poi la musica davvero interessante per me è quella che ha anche altri livelli di lettura.
E invece qual è l’aspetto della tua musica che ti piacerebbe fosse considerato con più attenzione dai tuoi ascoltatori?
Quando ascolto certa musica è come se mi estraniassi dalla mia dimensione reale e mi rappresentassi in un altro posto o in una sensazione, e mi piacerebbe che questo possa accadere anche a chi ascolta “Iwa” oppure “Otun”. Quando sei davvero connesso con la musica hai la sensazione che tutto è possibile. Ecco, questo è ciò che mi piacerebbe che il mio pubblico provasse ascoltandomi: che tutto è possibile!