In un periodo in cui definire il mercato musicale “saturo” è un eufemismo e ci sono produttori in grado di rilasciare un EP al mese senza batter ciglio, tre anni di silenzio sono praticamente un’eternità. Ci sono però produttori più pazienti, in grado di cesellare la propria musica fino a quando non è davvero finita, o semplicemente in grado di aspettare che lo splendido ricordo del proprio album precedente si sia affievolito quel tanto che basta da voler ribadire il concetto con un album nuovo. “A Certain Distance”, il lavoro precedente di Lusine, è datato 2009, ma sentendo il suo nuovo “The Waiting Room” è come se non fosse passato nemmeno un giorno da allora anche se in realtà è cambiato tanto; il buon Jeff McIlwain in questi tre anni ha fatto altro, tipo la colonna sonora di un film, ma ora evidentemente ha deciso che i tempi erano maturi per del materiale nuovo e noi non possiamo che gioirne.
Che sorta di musica c’è, dunque, in questo “The Waiting Room”? E’ difficile da spiegare in maniera assoluta: si può definirlo “pop elettronico”, ma la definizione è estremamente vaga eppure riduttiva, perchè non bastano i vocal eterei della moglie di Jeff a renderlo interamente pop nè tracce con la cassa in quattro come “Lucky” a farne un album di musica elettronica come tanti altri. In qualunque genere si provi a incasellarlo, in realtà, l’album sfugge, perchè ogni traccia è un mondo a sé in uno spettro che va dalla morbidezza quasi ambient di “Panoramic” all’atmosfera epica di “Stratus”, passando per armi da dancefloor come “First Call”. Allo stesso tempo, però, ascoltandolo tutto d’un fiato si percepisce nettamente la cura che è stata messa nella costruzione di un percorso di ascolto, si intuisce chiaramente che c’è un filo conduttore che lega l’album e che ogni particolare, ogni suono è stato studiato con cura: non è semplicemente un’accozzaglia di tracce messe insieme alla bell’e meglio, ma un long play nel vero senso della parola, un’ora o giù di lì di musica che scorre via senza neanche che tu te ne accorga.
Si può provare a descrivere “The Waiting Room” per analogie, ma anche così non si centrerebbe appieno il punto: è una sorta di Matthew Dear meno pretenziosamente indie, o una specie di M83 che incontra Nathan Fake e i Royksopp, ma in realtà non è nessuna di queste cose. Semplicemente, è un gran bell’album, probabilmente già ora uno dei migliori dell’anno, in cui è evidente la mole di lavoro e di talento alle spalle e che ci ricorda quanto per un produttore la qualità conti infinitamente più della quantità.