C’è poco da girarci attorno: lo show di Liberato è stato assolutamente uno degli hightlight dell’edizione 2017 di Club To Club (un’edizione, come scrivevamo, riuscitissima, forse la più riuscita in assoluto). Un po’ perché si temeva l’ennesima boutade (…o boutanade?) come quella offerta qualche mese al Mi Ami, con Calcutta, Priestess e altri a “fare le veci” di un artista che non c’era sul palco, mentre invece abbiamo avuto un live set vero e proprio; ma soprattutto perché il live set in questione è stato un live set della madonna, ad altissima qualità. Poche palle. Lo è stato musicalmente (Liberato, chiunque egli sia, sa cantare e tenere il palco bene), come impatto (la formazione-a-tre che ricorda anche un po’ l’ultimo tour di Cosmo), soprattutto come impianto scenico. E proprio considerando quest’ultimo aspetto, che tra l’altro come leggerete ci ha sorpreso in alcune scelte, abbiamo voluto andare più a fondo: ci siamo fatti un po’ di chiacchiere con Quiet Ensemble, al secolo Fabio Di Salvo e Bernardo Vercelli, che ha curato i visual e tutta la mappatura delle luci in collaborazione con il light designer Martino Cerati.
QUIET ENSEMBLE
Come siete entrati in contatto con la galassia-Liberato? Avevate già collaborato in passato con alcune persone legate al progetto?
Attraverso Francesco Lettieri, il regista dei video di Liberato. Ci conosciamo da diversi anni, ma Liberato è stata la prima occasione in cui ci siamo ritrovati a lavorare insieme.
Quali sono state le prime indicazioni che vi sono state date? O avete avuto carta bianca?
“UE’ GUAGLIU’ M’ARRACCUMANN’ L’ANONIMATO!“, la prima e unica indicazione è stata questa! Ci è stata data per il resto carta bianca, col compito di realizzare un intervento artistico intorno alla musica di Liberato. Ci ha subito attirato il concetto di anonimato: perché l’obiettivo era mostrarlo in scena, ma allo stesso tempo nasconderlo. Abbiamo quindi lavorato sul concetto di invisibilità, tema tra l’altro ricorrente nelle nostre opere.
La scelta di non includere, nello show di Liberato, un certo tipo di immaginario da “Napoli 2.0” (che è un suo tratto distintivo…) è una scelta piuttosto forte. E’ stata una condizione di partenza fin dall’inizio, o è una scelta a cui si è arrivati in un secondo tempo?
Non volevamo raccontare qualcosa di materiale, non volevamo approcciare agli elementi mostrando qualcosa di concreto. Le canzoni di Liberato, raccontano già molto bene quell’immaginario. Danno sensazioni forti e immagini chiare. Ci siamo immersi in un universo che avvicina mille contraddizioni e contaminazioni, coniugando vari generi musicali. Abbiamo avuto a che fare con un approccio artistico dove la luce vuole oscurare, è una facciata di nuovo contrastante: ma una volta inclusa, contribuisce alla creazione di un’ulteriore apertura, di una stimolante commistione.
A grandi linee, come si potrebbe riassumere il concept di quanto approntato per il live set di Liberato?
Il nome dell’installazione racchiude in sé il senso concettuale del nostro intervento: ossia “ANTILIGHT”, illuminare per nascondere. Abbiamo approcciato Liberato come un elemento delle nostre opere, orchestrando questa visione secondo la nostra immaginazione e il nostro immaginario. Quindi, così come nelle nostre opere mostriamo elementi naturali nascosti, impercettibili e inaudibili, come ad esempio il tracciato vitale di esseri viventi, il volume dei suoni nascosti della frutta, o il ronzio di fari teatrali, allo stesso modo con Liberato volevamo mostrare tutta l’energia e la potenza di una persona “invisibile” ma allo stesso tempo presente sul palco.
A Torino, negli stessi giorni, siete stati presenti anche nella rassegna The Others, uno degli appuntamenti collaterali più interessanti nei giorni di Artissima, in rappresentanza del CRAC. Qual è il vostro legame con CRAC? Come raccontereste questa realtà, che tra l’altro opera in un contesto non prettamente centrale?
Il CRAC è un centro di ricerca di arti contemporanee che ha sede a Lamezia Terme fondato da Nicoletta Grasso, nostra amica da anni. Siamo sempre stati presenti, dalla nascita di CRAC e FRAC Festival fino ad oggi. Abbiamo partecipato il primo anno con “The Enlightenment” e una versione doppia di “Quintetto”, con dieci vasche e dieci pesciolini rossi per intenderci. Il secondo anno abbiamo portato “Natura Morta • Tropical Version” e stiamo continuando la collaborazione. Crediamo che l’intero progetto sia speciale proprio in relazione al luogo in cui tutto ciò avviene: un luogo periferico, ma prolifico nell’accogliere un nuovo modo di intendere le discipline artistiche contemporanee.
In generale, che aria si è respirata in questi giorni a Torino, tra Club To Club, Artissima e i vari eventi collaterali?
In questi giorni a Torino l’aria che abbiamo respirato è stata perlopiù quella della sala prove, macchine della nebbia, subwoofer e di Napoli! (risate, NdI) Purtroppo non siamo riusciti a vedere tutto quello che avremmo voluto, ma The Others è stata una bella esperienza. Tra Artissima, gli spazi dell’OGR che oltre ai concerti kraftwerkiani di Club To Club hanno accolto anche la mostra creata assieme alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, il PAV e tutte le altre mostre e gli eventi sparsi per la città, abbiamo pensato che Torino è davvero un epicentro culturale italiano prolifico, ricco di collaborazioni e contaminazioni… un epicentro in cui non sarebbe male passarci del tempo.
Come si sta snodando il percorso passato, presente e futuro di Quiet Ensemble? Esiste una linea di crescita, direzione e continuità ben precisa?
Sono quasi dieci anni che lavoriamo insieme: abbiamo cominciato insieme e stiamo cambiando insieme, trovando sempre un ottimo equilibrio tra personalità diverse ma affini. Abbiamo cominciato con la creazione di opere audiovideo. abbiamo continuato focalizzando l’attenzione su pesciolini rossi musicisti, formiche disegnatrici e le piccole cose, fatte di luce, ombre ed elementi naturali. Continuiamo a lasciarci coinvolgere dall’errore, del caso, lasciandoci incuriosire dall’inudibile e dall’invisibile. Abbiamo diversi progetti in programma, tra cui una nuova produzione che vedrà come protagonista di nuovo la luce. Dopo “The Enlightenment”, abbiamo continuato la ricerca del suono della luce e degli elementi che la generano, in questo caso, prenderemo in esame dei fari motorizzati che per illuminare utilizzano una serie di parti meccaniche analogiche, parti su cui rivolgeremo la nostra attenzione facendole “suonare”. Di solito questi fari illuminano un concerto; in questo caso saranno loro protagonisti del concerto. E noi ci rapporteremo a loro, saremo in scena cercando di addomesticarli e aiutarli a far emergere tutto il brusio vitale nascosto di questi elementi, mettendoci in stretta connessione tra loro, creando un rapporto diretto, in cui la nostra presenza si mischia a quella dei fari, permettendo cosi che il concerto abbia luogo.
(Immagini di Edoardo Bianco; continua sotto)
MARTINO CERATI
Quando hai scoperto che saresti stato coinvolto nel team che avrebbe dato vita a questa prima, “vera” apparizione di Liberato in un live set?
Sono stato contattato circa tre mesi fa dalla sua produzione: avevano un direttore di produzione con cui negli anni ho collaborato tanto, con reciproca grande soddisfazione, su più di un artista italiano. L’obiettivo era creare e gestire uno spettacolo di trentacinque minuti composto di molti vincoli precisi: cooperazione artistica (quindi focus non solo sulla musica), giochi di penombra e controluce, cura degli effetti scenici al limite del maniacale (un compito reso più “semplice” grazie alla presenza di Quiet Ensemble). Un concept idealmente ottimo ma realizzativamente difficilissimo da mettere in opera partendo da zero, tra l’altro con poche possibilità di fare delle prove. La difficoltà è stata prendere decisioni progettuali un po’ “alla cieca”, partendo dalla necessità che non si compromettesse il mistero sull’identità di Liberato, come ovvio!, ma anche dal fatto che parlavamo non solo di uno show inedito, mai andato sul palco prima: no, c’era anche la difficoltà di essere nel contesto di un festival, quindi con tempi e spazi molto serrati, contingentati. Il mio ruolo, oltre a quello di puro designer dell’illuminazione, è stato anche quello di “guidare” e mediare all’interno di una produzione artistica complessa, dove l’arte in sé aveva un grande ruolo e una presenza fondamentale, tutto questo rispettando una serie di necessità tecniche operative (e con quindi anche la necessità di trovare un fornitore tecnico affidabile). Quindi ecco, durante le prove mi sono trovato a programmare scene, scegliere materiali, cercare equilibri illuminotecnici anche un po’ “ad intuito”: perché un conto era l’ambiente protetto e su misura in cui potevamo fare le prove, un altro era il Main Stage di un festival, dove non eravamo certo gli unici ad esibirsi. Alla fine però è andato tutto decisamente bene.
Direi che è andata benissimo.
Dal mio inutile punto di vista, mi sentirei di dire che lo show in sé aveva quanto più di “estero” ci si potesse immaginare, una volta messo in atto. Al primo “play” musicale e visivo ci siamo tutti accorti di avere in mano qualcosa che nell’insieme mi (e ci) ha fatto pensare che, in fin dei conti, la questione dell’identità di Liberato fosse assolutamente relativa, al di là della necessità tecnica di tenerla nascosta. Tutta la produzione, tutto il team ha reso veramente agevole questo lavoro dal punto di vista dello sviluppo esecutivo fin dalle primissime prove, col suo talento: proprio perché l’insieme del concept e della materia musicale era sintatticamente perfetto prima ancora di avere il compito concreto di metterlo in scena. Detto questo, sono covinto che quanto è venuto fuori è ancora solo il 50% delle potenzialità del progetto – un progetto che appunto nasce già ottimo di per sé.
Tu ormai hai un’esperienza piuttosto importante nel campo del light design per la musica live. Quanto è stata formativa ed innovativa per te queste esperienza, rispetto alle altre che hai vissuto?
E’ stata un’occasione, che aspettavo da molto tempo, per poter inserire dei momenti estetici semplici ma molto efficaci che ho visto in decine di concerti diversi di artisti diversi in momenti diversi. L’osservazione continua di esperienze creative altrui è per me di fondamentale aiuto nel ricercare rielaborazioni e cose nuove per la programmazione di uno show. Un bagaglio che mi è servito non poco, nelle quasi quarantotto ore di fila di lavoro che hanno preceduto la messa in scena dello spettacolo! La sfida è stato ridurre al minimo l’intervento delle luci, valorizzando così la creatività progettata dai ragazzi di Quiet Ensemble. “Less is more”: in questo caso più che mai. Credo che chi c’era, a Torino, se ne sia accorto.