Come ogni anno arriva (e sempre prima, come gli addobbi natalizi in strada…) l’annuncio che tutti gli appassionati di musica aspettano: la release della line up del Primavera Sound.
E puntualmente, dopo l’annuncio, ci sono sempre persone che si chiedono: “Il Primavera Sound non è più lo stesso?”
Se per l’edizione di quest’anno al momento dell’annuncio il festival era stato crocifisso dal pubblico “purista” dell’indie a causa di una line up “troppo pop”, per il 2026 si è tirato un sospiro di sollievo, grazie ai Cure, ai My Bloody Valentine ai Massive Attack, nomi che confortano e danno certezze a chi era spaventato dalla possibile “coachellizzazione” del festival.
E si parla già di “back to basics”.
…ma cosa si intende, con questo?
Forse è ora di fare il punto della situazione: non tanto sulla line up del festival in sé, quanto sulle aspettative che parte del pubblico ancora ha su di esso nonostante un’evoluzione lunga più di vent’anni.
Nato al Poble Espanyol come evento locale e cresciuto al Forum, il Primavera Sound fin da subito ha saputo creare una precisa visione della musica del presente, in ogni sua declinazione.
Se leggiamo il cartellone del 2001, con Carl Craig come headliner insieme a Armand Van Helden, risulta chiaro che il festival avesse già il preciso intento di raccontare in modo alternativo il linguaggio musicale, senza limitazioni a un genere specifico, anzi, forse più di impronta elettronica.
Se nel 2005 il nome di punta sono gli Arcade Fire e i Franz Ferdinand, è perché il presente in quel periodo storico parla una lingua quasi unica, l’indie rock, che domina le classifiche, i giornali e MTV. L’indie in tal senso era pop, nel senso di popular. Però non solo indie, ma anche tanta elettronica, techno, rap, metal, e hardcore.
L’indie rimane il principale movimento musicale fino almeno al 2015, quando il mondo evolve, i social diventano la nostra seconda vita, Spotify comincia a dettare le leggi del mercato e la fruizione della musica si apre a nuovi punti di vista, abbattendo le pareti geografiche e identitarie.
E il Primavera intercetta alla perfezione queste nuove tendenze, dall’avant-pop al K-pop, dal world sound al folklore, fino alle avanguardie più sperimentali, attirando a sé un pubblico variegato e capace di creare comunità. Il festival diventa a tutti gli effetti un brand da esportare, capace di creare e mantenere una comunità basata sul rispetto reciproco e sulla passione per la musica, prima di tutto.
Se da un lato il festival si adatta ai repentini mutamenti dell’oggi, dall’altro non dimentica quella parte di pubblico ormai affezionata alle sonorità più alternative, basti solo pensare agli Shellac, che per vent’anni hanno calcato i palchi di Barcellona fino alla morte di Steve Albini, a cui è stato dedicato un palco nell’edizione 2024. E per cui diremo sempre che la line up del Primavera è “Shellac and 249 more”.
(Ci si è fatta sopra anche una maglietta, su questa cosa degli Shellac al Primavera; continua sotto)

Il tanto discusso power trio femminile dell’edizione 2025 (Charli XCX, Chappell Roan, Sabrina Carpenter) si pone al culmine di una precisa visione da parte dell’organizzazione, che dal 2019 si impegna nel portare avanti il concetto di “The new normal”, ossia di aumentare le quote delle artiste donne e queer sul palco, normalizzando quello che era una disparità.
Quello che è stato spesso percepito come uno scivolone verso il mainstream della line up, è in realtà parte integrante di questo processo, che ha portato sui palchi principali il pop eclettico di Caroline Polacheck, il nuovo reggaeton di Rosalìa, per non citare Solange, Halsey, SZA, Mitski, Roisin Murphy, Lana del Rey, 070 Shake, Troye Sivan fino al fenomeno attuale che troveremo sul palco del 2026 Addison Rae.
Insieme a questo, il progetto “Nobody is normal” ha rafforzato l’idea del creare comunità tra le persone presenti, invitando alla libertà di espressione, sempre nel rispetto di quelle altrui. Non è un caso nemmeno che a Porto esistessero bagni genderless prima ancora che se ne discutesse, e che sono stati introdotti gli orinatoi femminili.
E così anche il pubblico si è trasformato: si è allo stesso tempo differenziato e amalgamato sempre di più.
Non c’è più una predominanza di esperti e appassionati che vanno a spulciare i nomi scritti in piccolo per trovare la chicca inesplorata, ma arrivano anche le nuove generazioni ad ampliare la presenza di un festival che conta circa 300mila presenze annue: una platea impressionante come numero. E tra queste ci sono persone che cominciano ad appassionarsi di musica proprio al Primavera, indossando vestiti troppo leggeri per sopravvivere ai gelidi spifferi delle 4 del mattino, tutto glitter e “outfit da festival”. Ma non eravamo così anche noi? Non ci identificavamo anche noi in jeans skinny e magliette righe?
Saremo stati anche noi guardati bonariamente dai veterani di allora, quasi con nostalgia per le prime volte che ora saremo noi a non poter più provare.
(Le cose cambiano, si evolvono – per tutti; continua sotto)

Noi della vecchia guardia abbiamo la possibilità di vedere e accompagnare chi si affaccia a questo festival per la prima volta (chi magari per il nome del momento: certo), magari daremo un’occhiataccia a qualche ragazzino che shazzammerà canzoni che per noi sono hit classiche, ma di certo posso dirvi che ognuno di loro, come noi, tornerà a casa dicendo che quella è stata “La migliore esperienza della mia vita“. Aggiungendo: “E lo rifarei subito”.
Potenzialmente, queste sono le stesse persone che un domani guarderanno i cosiddetti nomi minori. Sono esattamente quelle persone.
L’educazione alla scoperta parte innanzitutto dalla presenza. E grazie alla solida comunità creatasi, il Primavera ancora riesce a far appassionare le persone alle novità inaspettate.
Più che essere spaventati da una possibile “coachellizzazione” del festival, dovremmo domandarci che aspettative ha ancora un certo tipo di pubblico. Quali sono le basi per cui possiamo dire che un festival, che guarda al presente da quando è nato, si sia snaturato portando sul palco delle proposte che coinvolgono nuove sonorità, diverse identità e spaziano in un mondo che non è più prerogativa di un unico genere predominante (spesso associato a un genere e a suoni ben precisi)?
Nel 2017 gli Slayer hanno suonato in main stage poco prima di Bon Iver, ma ai tempi nessuno si lamentò di una deviazione verso il metal.
Forse abbiamo scordato che Sabrina Carpenter, Charli XCX e Chappell Roan l’anno scorso erano in cartellone insieme a Idles e Fontaines Dc, e Turnstile (solo per citarne alcuni), a rimarcare la vera natura e visione del Primavera Sound, quella di parlare il linguaggio universale della musica attraverso l’unione, di persone e di generi.
E quella del 2025, ammettiamolo, è stata una line up davvero in grado di unire tutto questo.
Perché possiamo dire che proprio quest’anno il festival ha ritrovato la propria natura, quando abbiamo sia i Cure sia PinkPantheress, così come in passato abbiamo avuto J Balvin e Jarvis Cocker, Charli XCX e Pavement?
Forse la domanda da porsi non è tanto se il festival sia cambiato o meno, ma se noi siamo in grado di adattarci al contesto in cui il mondo si sta muovendo.
L’insegnamento vero che continua a darci il Primavera Sound è permetterci di ampliare le nostre vedute, e distaccarci dal nostro punto di vista: in 13 anni di presenza ho assistito a concerti che, se fossi rimasta arroccata nella mia visione tutta chitarre e lacrime, non avrei mai apprezzato
Parliamo allora della line up del 2026, non di certo la più innovativa o fuori dagli schemi, una line up comoda per chi aveva detto “Non tornerò mai più a un festival fatto per gli influencer” (…ma andava bene quando nel 2023 c’era stato abbondante pane per i denti dei nostalgici, con New Order, Depeche Mode, Blur?).
Non c’è il nome o la reunion inaspettata e sconvolgente in questa edizione, e d’altronde non ci si può aspettare che ogni anno il Primavera lanci sempre più in alto, è sempre stato un alternarsi di edizioni più o meno eclatanti.
Leggere Doja Cat accanto ai Cure per me è l’ennesima conferma che il Primavera Sound riesce ancora una volta a creare un dialogo tra vecchie e nuove sonorità, creando collettività anche tra diverse generazioni.
Il nome che in assoluto risulta per me più interessante è quello di Lola Young, nuova promessa del cantautorato britannico che porta la sua voce giovane e potente fuori dalle pareti di casa, parlando a una intera generazione.
Saranno presenti nuovamente i Gorillaz, che avevano fatto una epica doppietta nel 2022; Mac de Marco, a cui ancora devo le visioni di lui che si denuda e si rasa sul palco nel 2017; e torneranno dopo l’annuncio della reunion avvenuto qualche mese fa, gli XX, con la domanda necessaria – riusciranno a essere all’altezza delle enormi aspettative, dopo la loro fama come solisti?
Ci sono anche le star nate grazie a TikTok, come PinkPantheress, ma d’altronde, chi siamo noi per giudicare il successo nato dai social se ancora ascoltiamo gli Arctic Monkeys, esplosi grazie a Myspace? Non so se tra dieci anni parleremo ancora di lei, ma d’altronde non parliamo nemmeno più dei Ting Tings, headliner dei più grandi festival tra il 2007 e il 2008: le fenomenologie contemporanee includono anche le eventuali meteore.
E per chi vuole viversi i palchi con proposte d’eccezione abbiamo Rilo Kiley, Fcukers, Lucrecia Dalt, Nick Léon, Panda Bear, Touché Amoré, Baxter Dury, Yard Act, Water from your eyes, solo per citarne alcuni.
E c’è un messaggio sociale molto forte: gli Kneecap saranno sul palco, e sappiamo tutti quanto sia potente chiamarli in causa per la questione palestinese su cui si sono ampiamente esposti, così come ci saranno i Massive Attack, esempio massimo di come la musica sul palco può essere attivissimo sociale su più fronti.
L’insegnamento vero che continua a darci il Primavera Sound è permetterci di ampliare le nostre vedute, e distaccarci dal nostro punto di vista: in 13 anni di presenza ho assistito a concerti che, se fossi rimasta arroccata nella mia visione tutta chitarre e lacrime, non avrei mai apprezzato, o quantomeno non me ne sarei potuta fare una opinione precisa e argomentata a riguardo. Bad Gyal, Megan Thee Stallion, Dreamcatcher, anche i Måneskin. Avere l’opportunità di uscire dai miei schemi mentali e farmi una idea di come mai certi fenomeni esistono e sono così popolari è un privilegio che non dovremmo né dimenticare né denigrare, al di là dei nostri gusti personali.
Un invito che voglio fare a chiunque andrà a Barcellona è questo, insomma: rimanete curiosi, per comprendere la contemporaneità.
Sperando che Skrillex non dia nuovamente fuoco al palco (chi c’era alla sua ultima esibizione, lo sa), ci vediamo a giugno 2026. Continua a valerne la pena.