Qualche appunto di viaggio sparso, che ci siamo portati dietro dopo aver speso un weekend a NovaraJazz. Molto avevamo già scritto nella presentazione del festival – e lì peraltro avevamo citato un po’ i nomi più “ovvi” (almeno per i lettori di queste pagine, ma non solo) che apparivano in cartellone. Nel fare un report post-evento, avevamo già nelle intenzioni di dare spazio anche a cose più specifiche e magari non citate in origine, in questa prima anticipazione sopra linkata. Ma invece di essere una mera forma di cortesia e di completamento dell’informazione, per citare più musicisti possibile e rendere contente quindi più persone, questo discorso non solo c’è, è confermato, ma è diventato proprio necessario. E pieno di significati.
In sede di presentazione parlavamo appunto di una dicotomia oggi abbastanza dominante: il “jazz degli assessori” vs. la ventata nuovista UK/Kamasi. Il primo ha solide ed innegabili qualità, ma facilmente è luogo comune e spesso una sorta di scacco matto creativo; il secondo ha portato una ventata di novità e trasversalità, ma facilmente diventa una scorciatoia pianeggiante che affascina ed abbaglia chi del jazz è solo turista, ma vuole abilitarsi in poche agili mosse a navigato intenditore. Amavamo Novara, si diceva, perché ai nostri occhi trovava un equilibrio – o proprio uno scarto – fra queste due componenti, lavorando sulla competenza.
E così effettivamente è stato.
L’hype al solito mente, svia, deforma? Sta di fatto che il set migliore che abbiamo visto in tre giorni intensi è stato quello di un’artista che difficilmente avete sentito nominare: la pianista polacca (ma residente in Italia) Joanna Duda. Sì, lo ammettiamo: ci è capitato di pensare che se invece di arrivare dalla Polonia e vivere dalle nostre parti fosse invece una che trama e traccheggia a Londra, shabakeggiando e gillespetersoneggiando, ora di lei si parlerebbe tantissimo. L’esempio che corre alla mente – e facciamoli i nomi, per una volta – è quello di Nubya Garcia: se parlate con dieci appassionati veri di jazz, nove vi diranno che non si merita assolutamente l’hype che l’accompagna, un hype che deriva dal suo essere parte di una scena, pardon, de la scena di cui oggi più si parla. Ma al di là di voler stangare chi viene visto, a torto o ragione, come sopravvalutato, il fatto è che ci sono tantissimi artisti nel jazz che per mille motivi non ottengono il credito che meritano. Tantissimi. Il jazz della Duda ha tutto per avere un appeal vasto. Tutto. È sperimentale ma arioso, essenziale ma complesso, semplice a momenti ma intensamente spigoloso appena serve; sa buttarsi sul groove, esattamente come decostruire. L’interplay coi soci Filip Botor e Michael Bryndal è esemplare: è chiaro chi è il leader del trio, ma allo stesso tempo il leader non prevarica gli altri due. Insomma tutto molto bello, ma soprattutto moderno e comunicativo, senza essere prevedibile, senza per forza seguire la scorciatoia della contaminazione (vera o presunta, reale o solo usata nei comunicati stampa) con l’elettronica e col clubbing, che poi spesso è nient’altro che una ripresa della fusion anni ’70, pure un filo scolastica. Ma tutto molto poco noto al grande pubblico.
(Joanna Duda, di spalle; continua sotto)
Ah ecco: “fusion“. “Fusion” che è in realtà una parola che sarebbe da mettere addosso agli Studio Murena. Vorremo farlo, sì: non fosse che già da decenni è diventata una parolaccia, più o meno erroneamente. “Fusion” sta infatti oggi per “musica di maniera”, per “jazz facile e leggerino”, quando in realtà era (…è?) una fusione tra jazz, funk e rock più o meno prog, più o meno psichedelico. Chiaro, la fusion ha sempre esposto al manierismo, perché è sempre stata suonato da gente molto brava come strumentista: però la deriva zuccherosa degli anni ’80 e successivi, che effettivamente c’è stata, non deve mettere in ombra le radici nobili della faccenda, radici ancora in grado di dare sapidi frutti.
Radici che gli Studio Murena, anche se negli anni ’70 manco erano nati, riprendono appunto molto bene, aggiungendoci peraltro una cosa molto difficile che negli anni ’70 manco ci si immaginava: il rap (…non vale citare i Last Poets, per favore). E mentre ad oggi, fin dagli anni ’90, quasi sempre gli esperimenti jazz+rap sono stati giocati in modo safe (anche seducenti, eh, ma safe), tolto qualche esperimento tipo di Steve Coleman o Steve Williamson (dove però il rischio e il difetto era l’ipercerebralità) ma ben inclusi anche esperimenti riusciti come Jazzmatazz di Guru, gli Studio Murena avvolgono le rime e i testi del rap in cambi continui, ritmi dispari, riff acrobatici e spezzati. Roba spessa, per gente preparata. Fusion fatta a modo, nell’accezione appunto più qualitativa del termine. Stanno diventando sempre più bravi gli Studio Murena, stanno diventando sempre più convincenti. Il prossimo step è creare una hit “generazionale”, senza però perdere l’anima e l’innata tendenza alla complessità. Ci possono arrivare, con l’interessante possibilità di creare una curiosa ed intrigante intersezione mediana tra i Casino Royale degli anni ’90 e gli Area di un paio di decenni prima (con molta meno politica schierata e sbandierata – ma con simile pathos emotivo).
Terza eccellenza di questo weekend speso a NovaraJazz sicuramente Myra Melford, che non ha assolutamente deluso le attese, la indicavamo già come uno degli highlight dell’edizione 2024. In un’ora di pianismo in solitaria ha condensato compattezza e lirismo, personalità ed essenzialità, forza dinamica ed attenzione ai particolari. Ma la vera magia è stata quella che ha vissuto chi ha assistito al set, sempre in solitaria ma stavolta per trombone, di Filippo Vignato, quarta eccellenza: ed è curioso che uno strumento talmente “sghembo” e dietro le quinte in Italia sfoderi fuoriclasse, stiamo pensando ovviamente a Gianluca Petrella. E come nel caso di Petrella, Vignato è uno che flirta con l’elettronica; e l’elettronica secondo il programma ufficiale doveva accompagnarlo nella sua esibizione in solo all’interno della suggestiva Chiesa del Carmine in centro città. Nulla di strano, nel leggerlo. Invece, l’elettronica non c’era. E meno male, accidenti. Contando infatti sul suono nudo e crudo dello strumento (e della voce), Vignato ha dato vita ad una esibizione di incredibile intensità ed anche senso drammaturgico, visto che piano piano ha davvero “smontato” – anzi, togliamo le virgolette: perché lo ha fatto letteralmente – il proprio strumento, fino a ridurlo a pezzi, con tanto di brutale schiocco finale. Ci aspettavamo da lui un bel set, abbiamo invece avuto una esibizione rara, magica, svoltasi in un silenzio quasi religioso da quanto era forte e calibrato ciò che stava portando avanti. Ergo: il jazz può essere creativo e sorprendente anche se non ci metti l’elettronica. Vorremo ripeterla in grassetto, questa frase. E nel dirlo non per forza si deve essere dei puristi wyntonmarsalisiani – chi vi sta scrivendo è l’esatto opposto, e il connubio tra jazz ed elettronica lo ama.
(Filippo Vignato in azione; continua sotto)
Altri appunti di viaggio sparsi. In Italia abbiamo due batteriste bravissime, Francesca Remigi ed Evita Polidoro. Davvero: bravissime. La prima l’abbiamo vista all’opera nel progetto appositamente creato per NovaraJazz dal centro di produzione WeStart, il Dialect Quintet capitanato dal pianista inglese Alexander Hawkins: un gruppo che ha pienamente convinto a metà, perché pur potendo contare sul drumming “pieno” e creativo della Remigi e sul corposo sax di Camilla Nebbia il band leader non ha a dirla tutta mai preso completamente il controllo della situazione per dare una precisa direzione ed una appropriata scala d’intensità, se non forse negli ultimi dieci/quindici minuti di concerto. Troppo poco. Evita Polidoro invece era una colonna del progetto Invisible Painters capitanato da Ferdinando Romano, all’opera anche lui nei Dialect Quintet appena citato: beh, più convincenti i Painters del Dialect. Più essenziali, ma più a fuoco. Per quanto riguarda la Polidoro, il suo disco “pop” (qui sì mille virgolette) sulla Tūk di Paolo Fresu è meraviglioso; con gli Invisible Painters si concentra invece di più sullo strumento, in chiave jazzistica, e lo fa con notevole nitidezza e potenza al tempo stesso, senza mai eccedere di misura e di dinamica.
(Alexander Hawking e Camilla Nebbia; continua sotto)
Altri punti d’interesse: la rinascita del progetto The Elephant, nato oltre un decennio fa e ora tornato in pista, dove Pasquale Mirra al vibrafono si conferma uno dei musicisti più interessanti e al momento ispirati in Italia, Cristiano Calcagnile è un batterista da prendere ad esempio se si vuole fare jazz moderno e contemporaneo, giusto Gabriele Mitelli si è nascosto/trattenuto un po’ troppo spesso sia ai fiati che con l’elettronica risultando – almeno nella serata novarese – il vertice debole del triangolo.
(The Elephant; continua sotto)
Citiamo poi il quartetto Tendha, un progetto bislacco ma che scrive canzoni da dio e che forse dovrebbe smetterla di nascondersi dietro al “gioco”, dietro al concept che spinge al lo-fi, per dispiegare invece la propria vera potenza (perché oh, mica facile scrivere bene), così come citiamo l’eleganza dell’ensemble Um/Welt, dove il jazz da camera incontra l’oud e i sapori mediorientali con gusto. Convincente più per il luogo (l’Arengo del Broletto, bellissimo!) e per il bis finale il set di sassofono solo di Rodrigo Amado, molto convincente invece il pianista olandese Guus Janssen che prende possesso dell’organo della Chiesa di San Giovanni Decollato e crea scoppiettanti colpi di scena, altrettanto convincente la veterana Joëlle Léandre in set solitario al contrabbasso, creativo ed espressivo.
(Guus Janssen assalta l’organo; continua sotto)
Insomma. Ci aspettavamo un jazz fuori dalle mode ma vivo, fuori dai luoghi comunica ma comunicativo: bene, lo abbiamo avuto. Abbiamo sempre visto NovaraJazz come un’eccellenza, osservandolo a distanza; e, toccando con mano, si è confermato tale. Ecco: Novara si rende conto della fortuna che ha? Perché sì: questa è una domanda da non mettere in secondo piano. Così come non è da mettere in secondo piano il fatto che spesso, anche nel jazz, le scelte più forti e qualitative e/o anticonvenzionali sono quelle che ti precludono il bagno di folla. A meno che l’ingresso non sia gratuito e – in qualche caso – un po’ distratto. Insomma, non è facile. Ma finché ci si prova, non si ha nulla da rimproverarsi. Per tutto il resto ci sono le vanity metrics da streaming e/o da parate istituzionali…
(NovaraJazz: una gran bella squadra, davvero)