Di solito le carriere dei musicisti si dividono in due categorie: ci sono quelle che somigliano ai lampi – piccoli botti improvvisi capaci di fare un rumore assordante e sconvolgere anche per poco l’ecosistema che hanno intorno – e quelle di chi lavora per anni sotto traccia, passo dopo passo, cercando di ritagliarsi il proprio posto nel mondo e finendo per entrare a poco a poco nell’immaginario collettivo senza fare troppo rumore, ma facendo leva su una crescente e solida credibilità acquisita. Entrambe le strade sono rispettabili e animate da una evidente ragion d’essere, ma se la prima categoria è apertamente avvantaggiata da un sistema che favorisce il cotto-e-mangiato dove tutto è marketing e il generare hype è passato rapidamente dall’essere un mezzo d’espressione a diventarne il fine unico, è molto più difficile cercare di mettere le basi per una carriera solida, duratura, che sopravviva all’usura data dal tempo e che sia in grado di combattere l’insicurezza economica con la creatività e la qualità.
Fink (all’anagrafe Fin Greenall) rientra perfettamente nella descrizione di cui sopra: è in giro dalla seconda metà degli anni ’90 ed è nel pieno di quella che si può a tutti gli effetti definire una “doppia vita musicale”. Emerso come dj e produttore di musica elettronica, con Ninja Tune a fare da bollino di qualità fin dagli esordi, ha saputo reinventarsi fino a diventare uno dei nomi più stimati e chiacchierati della scena neo-folk. Proprio questo suo essere costantemente sospeso tra due mondi – l’universo del clubbing e quello più legato ai concerti tradizionali – l’ha reso un musicista unico, dall’identità decisa e di vedute ampissime. Uno che si esibisce con la chitarrina ma che ha tra il pubblico gente abituata a passare i weekend su una pista da ballo e sotto cassa.
Un vero e proprio cantautore – nel senso di singer/songwriter – della contemporaneità, fiero di un approccio fortemente ancorato all’oggi, ma pure lontano dalle mode, e seppure non sia mai stato davvero toccato dal successo, quello scritto tutto in maiuscolo, il SUCCESSO, può contare su una fanbase davvero ampia e trasversale.
Perché Fink arriva sia a quelli che in casa hanno solo dischi con la cassa in quattro che a quelli che
non hanno mai messo piede in un club in vita loro. Sta nel mezzo, come dicevamo prima, e ci sta benissimo. Famoso per pochi, ma importante per tantissimi.
Il suo nuovo album ha per titolo quello che sembra a tutti gli effetti un piccolo manifesto stilistico: “Hard Believer”. Perché è arrivato il momento di crederci sul serio e provare a fare le cose un po’ più in grande, crescere, migliorarsi, arrivare a un pubblico più ampio, capitalizzare il lavoro di anni, senza per questo rinunciare a quelle che sono sono le peculiarità che hanno reso popolare il suo suono. Ci riesce? Non proprio.
“Hard Believer” appare quasi come una versione deluxe di tutto quello che Fink ha già pubblicato in precedenza: tutto è volutamente “più grosso”, “più suonato”, “più prodotto”, “più arrangiato”, al punto da risultare quasi eccessivo, e anche dove vorrebbe rincorrere una maggiore accessibilità finisce per sembrare ancora più convoluto del solito. Tant’è che viene spontaneo chiedersi quale sia l’idea di base dietro un lavoro del genere, perché se l’obiettivo neanche troppo celato è quello di provare ad allargare un po’ di più il bacino d’utenza di Fink, possiamo già essere certi che non succederà.
E non è per forza un male. Perché la scrittura di Fink, anche nel tentivo di aprirsi a più strumenti e strutture che vanno in direzioni diverse dalle sue solite, finisce per uscire ridimensionata da un trattamento simile quando in realtà dovrebbe acquistare maggiore vigore. Come se il suo modo di comporre si prestasse a una sola interpretazione possibile, mentre l’allontanamento da certi stilemi più che essere un pregio finisce per diventare un limite.
Capiamoci: non è un brutto disco. Non lo è per niente. Anzi: ci sono alcuni momenti davvero alti e, quando i tempi si dilatano e le atmosfere diventano ancora più sospese, Fink riesce a fare emergere al meglio quelli che sono i suoi ben noti marchi di fabbrica: la voce, in primis, e certe melodie davvero impeccabili. Perché, insomma, bravo è bravo, e a tratti sembra possedere pure i numeri del fuoriclasse, ma non c’è niente da fare: la sua dimensione è questa, il botto vero non lo farà mai, non è per lui e non è quello di cui ha bisogno. E probabilmente non ne abbiamo bisogno neanche noi.