Forse finalmente sta accadendo. Forse davvero il termine indie in Italia sta tornando ad essere sinonimo di qualcosa di particolare, di alternativo, di deragliante rispetto agli oliatissimi meccanismi del pop e del mainstream. Che cazzo, sarebbe anche ora. In teoria indie è sempre stato questo, infatti: un modo di fare canzoni, sì, ma di farle con altri suoni, altri intenti e soprattutto un bel po’ di alterigia rispetto all’oliatissimo piacionismo del pop e del rock più commerciale. Poi ogni tanto le stelle si allineano, e gruppi stranieri (R.E.M., per fare l’esempio più banale) o italiani (e qui l’elenco è lunghissimo, ora ci arriviamo) esplodono pure nel mainstream. Accade, sì. E quando accade che succede?
Possono succedere molte cose. Quella che succede più spesso, è che impari a giocare anche tu alle regole del mainstream: la promozione, i concerti sempre più grossi, i contratti sempre più ricchi, un certo tipo di obblighi, un management che fa lo stronzo per te, eccetera eccetera. Anche perché se non lo fai, fanno in fretta a metterti addosso l’etichetta dell’ingestibile, o del perdente, o dell’immaturo, e a riscaraventarti nella nicchia da cui sei arrivato – un luogo dove prima stavi bene, era il tuo background, la tua vita, e credevi anche fosse il tuo futuro, ma una volta che assapori quanto comodi si sta nel mainstream c’è poco da fare, il tuo istinto animale di sopravvivenza ti dice che forse è il caso di fare uno sforzo, ed adattarsi alla nuova realtà, cercando di restarci, e di restarci bene.
E qui forse in Italia, al solito, si è un po’ esagerato. È fantastico che la scena indie italiana dei primi anni 2000 o poco più in là sia diventata, con moltissimi suoi esponenti, il mainstream attuale: oggi i Forum e gli stadi li riempiono Calcutta, Tommaso Paradiso, Gazzelle, Pinguini Tattici Nucleari, volendo perfino un normcore come Ultimo – uno che i numeri li fa veramente, anche se i saputi lo schifano tutti – e sono tutti artisti che arrivano comunque da un background di nicchia, alternativo, non industry plant di una major. Ecco, a proposito di background e di industry plant: pure chi arriva da un background cazzutissimo ed alternativissimo, quello dell’hip hop, del rap, ha scoperto quanto è bello essere cantabili e popolari ed obbedienti ai suggerimenti delle major, e con rare eccezioni si adegua perfettamente a vivere e prosperare nella catena di valore del mainstream accettandone i riti, accettandone gli obblighi, accettandone la spinta all’omologazione, imbracciandone l’obbligo del ritornello melodioso e cantato e poi di chissà quant’altro ancora.
Sono anni che l’indie italiano è mediamente fatto bene, confezionato a modo e felicemente generazionale e popolare, sì, ma un filo noioso. Spesso un filo noioso. Di sicuro, molto prevedibile. E molto, molto omologato, ecco. Di alternativo non ha nulla, se non qualche vezzosa posa verbale residuale, ma nulla che possa compromettere l’essere perfettamente inserito nei meccanismi e nei roster del mainstream.
Un tempo l’indie – da noi e non solo da noi – era roba da pezzenti, da reietti, da gente che non sarebbe mai riuscita a vivere della propria musica, già, ma c’era comunque un po’ la gara e la garra ad essere originali (anche se spesso giocata imitando modelli americani o inglesi), speciali. C’era insomma un po’ di sana rabbia, di voglia di distinguersi, di voglia di rappresentare un pungolo ed un’alternativa, di essere una sponda emotiva per chi non si accontentava di stare nel gregge. Oggi?
Siamo però molto fiduciosi verso le nuove generazioni. E incontrando persone come Alessandro Mascogiuri, in arte EMMA, capiamo perché abbiamo deciso di esserlo. Non durerà all’infinito la melassa post-battistiana – bella, ben fatta, da cantare in coro, malinconica e rassicurante al tempo stesso – che caratterizza le cose indie italiche diventate oggi mainstream, e non durerà nemmeno all’infinito il duro-di-strada rapper tatuatissimo che si scopre tenerone col cuore d’oro e il ritornello scritto da Petrella e musicato dalla Abbate. Sono già cose che ai ventenni hanno iniziato a rompere il cazzo. O almeno, ci piace pensare così, ci piace vederne i segnali.
(EMMA, fotografato da Elia Gabassi; continua sotto)

Di sicuro EMMA ci ha molto colpito. Fa canzoni, sì, è tecnicamente assolutamente uno “da indie”, e del cursus honorum dell’indie commerciale attuale ha pure stimmate impresse nella carne, però ha avuto il coraggio, la forza e la pazzia di riprendere in mano la propria vita e la propria arte, e scaraventarsi come un kamikaze contro tutto ciò che è rassicurante, levigato, pettinato. Lo fa nei suoi show – ed è girato molto il filmato di parte del suo set al Mi Ami 2024 e di un suo sabba coi fan – lo fa nei suoi dichi, che con la release “Era l’inizio” uscita poco meno di un mese fa ha terminato una trilogia iniziata con “Era” e “Era la fine”.
Il suo management attuale si è inventato una cosa carina: invitare i giornalisti a parlare con l’artista nella camera dell’artista stesso, nella casa milanese che lo ha ospitato in questi anni, mantenendone il letto sfatto, il disordine, tutto insomma. Bene dai: già qualcosa di diverso, di differente rispetto al solito.
Ma la chiave però è stata arrivare preparati, aver fatto ricerca, non limitarsi al preciso e compìto comunicato stampa + bio allungato dal management e dall’ufficio stampa, e una volta iniziato a parlare con lui, con l’artista, mettere subito le carte in tavola: EMMA, tu hai un altro passato. Un passato che di nome fa Aemme. Un passato in cui eri pulitino, carino, rapperino, rassicurantino. “Sai qual è la verità? La verità è che in quel momento, in quel periodo della mia vita, non capivo niente”. La conversazione parte così. Ed è già chiaro che sarà una conversazione interessante. Anzi: si rivela un vero e proprio flusso di coscienza.
(Emma al Mi Ami 2024; continua sotto)
“Originariamente a fare musica eravamo io ed un’altra persona, il mio produttore, lavoravamo insieme, io ancora non mettevo mano alla parte musicale, facevamo per lo più elettronica. Poi però successe una cosa, ma veramente per caso… Mi ero appena lasciato con una ragazza, che per certi versi è stata la mia prima e all’epoca unica ragazza, figurati come stavo messo, e allora niente, per farmela passare feci un pezzo di un certo tipo. Un pezzo secondo me di merda, visto con gli occhi di oggi, e poi comunque è stato pure buttato giù da Spotify per tutta una serie di casini, quindi non lo troverai in giro. Comunque ecco, parlo di questa tipa, dei miei struggle in amore. Ci faccio un pezzo sopra. Mai mi sarei aspettato quello che è successo dopo. Mai mi sarei aspettato che sulla base di quel pezzo ad un certo punto mi sarei trovato a firmare con una major, entrando nella sua scuderia. Ma anche: mai mi sarei aspettato che poi quella cosa, cioè la firma, l’impressione di potercela finalmente fare, che pensavo fosse la svolta della mia vita, sarebbe stato l’inizio del disastro. L’inizio di una lunga, orribile caduta”.
“La musica per me è sempre stata divertimento, e le tracce per cui mi hanno preso in major dal divertimento comunque nascono, questo ci tengo a dirlo. Se ci ripenso mi viene da piangere: eravamo belli, puri, non facevamo calcoli, nel cazzo della provincia pugliese a Ruvo non pensavamo che all’improvviso potesse cambiarci la vita… Poi, quando è cambiata, la vita, è stata la rovina. Non rifarei mai le scelte che ho fatto in quel momento lì. Mai. All’improvviso mi sono ritrovato catapultato in un mondo grande, serio, forte, ma anche un mondo dove ho sempre avvertito che non c’era praticamente nessun rispetto umano reale. La mia opinione non contava. L’ultima parola non era la mia, non poteva essere la mia. Ci credi che ancora adesso, mentre te ne parlo, mi viene da piangere?”.
“Mi è capitato anche di finire, dopo un contest, in mano a Michele Canova, uno dei nomi grandi della industry, uno con anni di esperienza nel mainstream, ma non era certo lui il problema o il suo modo di impostare il lavoro in sé. No. Il problema è che ad un certo punto avevo persone che davano per scontato che potessero decidere loro per me, su tutto… Ma al di là delle colpe di questo o quello, era proprio tutta la situazione in cui ti ritrovavi ad avere attorno un sacco di persone in vari ruoli e in vari modi che ti dicevano come fare le cose, che ti spiegavano che se non facevi tutto in una certa maniera poi mettevi in difficoltà sia te stesso che loro. Sai cosa? Io non ce l’ho tanto con loro. Ce l’ho più con me stesso. Sono stato violato, sì; ma sono io che ho permesso agli altri di violarmi. Sono stato io. È prima di tutto colpa mia”.
“Ad un certo punto sono venuti fuori i problemi. Inevitabile. Nel frattempo, non gliene fregava niente a nessuno che io stessi sempre peggio, che fossi sempre più scontento e depresso. No. Contava solo accontentare determinate persone, accontentare l’etichetta, accontentare quello che altri volevano ed immaginavano per me, e farlo anche se tutto questo mi faceva stare male, mi faceva stare sempre peggio. Più li accontentavo, più mi sentivo in colpa con me stesso. Più mi sentivo in colpa con me stesso, più mi sentivo inadeguato”.
“Però ci provavo. Ci provavo lo stesso. Credimi. Non volevo deludere nessuno”.
“Ma non serviva. O comunque, non era abbastanza. Le tensioni erano sempre più forti. Le cose che mi venivano recriminate sempre più numerose, sempre più pesanti. Stavo sempre peggio, e questo dovevo pure nasconderlo: ‘Devi pubblicare sui social, ma non le foto che ti sei fatto, che sembri malato – su TikTok ‘sta roba non funziona, non puoi pubblicarla’, questo mi veniva detto. Capisci? Che poi spesso non erano nemmeno richieste dell’etichetta: no, erano le persone più vicine a me che pensavano che così avremmo compiaciuto quelli dell’etichetta, spingendola a fare di più per noi. E guarda, non li odio neppure oggi per questo, cioè, diciamo che mi rendo conto che pensavano di fare bene a fare così, pensavano di essere più bravi, più professionali, di fare meglio il loro lavoro e – di conseguenza – i miei interessi. Ma io stavo male. Malissimo. E ad un certo punto, ho avuto un crollo”.
“Sono finito in ospedale, a fissare il soffitto”.
“…che poi sai qual è la cosa assurda? Una delle persone a salvarmi è stata proprio uno che lavorava nella major che mi aveva messo sotto contratto, Gabriele Minelli, una persona veramente in gamba. Ad un certo punto si è reso conto lui di tutta la situazione, di quello che stava succedendo, lui e non chi magari mi stava più vicino, e ha detto: ‘Lasciamolo solo, questo ragazzo. Lasciamolo lavorare per i fatti suoi. A fare come stiamo facendo adesso, lo stiamo distruggendo’. Ho iniziato a sentirmi un po’ meglio, da lì. Ho iniziato a lavorare al mio primo disco, facendo finalmente solo quello che volevo io, come lo volevo io”.
“Ora sì che potevo farlo. Ora sì che dovevo farlo. Perché sono fatto così: capisco quello che voglio solo quando mi scontro pesantemente con quello che non voglio. Ho iniziato a produrre io la musica in prima persona semplicemente perché avevo capito che avere attorno gente che ti suggerisce cosa fare era qualcosa che era arrivato a farmi impazzire, ma impazzire davvero, da star male, da ricovero. Ho adorato Gabriele Minelli anche quando ha sentito questa mia nuova roba, fatta solo da me, e ha avuto l’onestà e la trasparenza di dirmi ‘Guarda, è interessante, ma per noi non va bene, è materiale troppo duro, troppo spigoloso, troppo distorto’. È stato onesto. Non ha finto di accontentarmi, per poi convincermi a fare le cose a modo suo”.
(continua sotto)
Ed è così che nasce EMMA. “Un nome idiota, lo so. Nel senso che lo so bene che se fai una ricerca su internet è un nome che dà problemi e basta, viene fuori solo Emma Marrone, non vengo fuori io. Ma la verità è che è un nome d’arte che ho adottato quando ho iniziato a fare delle tracce che pensavo di far circolare restando in incognito, non erano insomma una roba ‘seria’, perché comunque io avevo i miei accordi con l’etichetta, la musica vera sarebbe uscita lì; però ecco, ogni tanto volevo avere una valvola di sfogo, ed era talmente uno sfogo che quando facevo questa musica qua spesso mi mettevo addosso una parrucca bionda, questa già da giovanissimo, prima di tutto il casino, i contratti, eccetera. Quando poi finalmente mi sono ritrovato ad essere libero, a poter fare tutto in prima persona, queste tracce ma soprattutto questo modo diretto, senza rete e senza filtri di approcciarmi alla musica sono diventati la mia identità. Sì. Io mi sono davvero sentito EMMA, capisci? EMMA non era un gioco, uno sfogo, no, avevo capito che EMMA ero io, ero io al cento per cento”.
“E non è finita. Quando stavo male, quando avevo avuto un crollo nervoso, ad un certo punto avevo iniziato a sentire delle presenze, praticamente degli strani angeli che mi giravano attorno a continuavano a dirmi ‘Fra’, devi scappare, devi cambiare tutto, devi tornare te stesso’, e quegli angeli fin da subito mi è venuto da chiamarli Emma”.
“E se EMMA fa schifo a livello di indicizzazione sul web, pazienza. Chi cazzo se ne frega. Anzi: la prima cosa che mi chiese la major fu di cambiare il primo nome d’arte che avevo, che era semplicemente A M, perché secondo loro era difficile da trovare facendo le ricerche su internet e sulle piattaforme. Ti puoi immaginare quanto ora abbia voglia di cambiare di nuovo un nome d’arte, che tra l’altro sento mio così nel profondo, per gli stessi motivi stupidi di allora”.
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“Oggi? Oggi non ho artisti di riferimento. Però ti posso dire che la strada dell’elettronica me l’ha illuminata Flume. Che c’è stato un periodo in cui ho ascoltato tantissimo QUIET BISON. Che “2gether” di Mura Masa mi ha cambiato la vita”.
“Ma io oggi voglio canzoni che, quando le faccio, ad un certo punto mi prendano al cuore, mi facciano piangere. Ecco, conta solo questo. Tutto il resto – la produzione, l’arrangiamento, la struttura, trucchi di qua, trucchi di là – non conta nulla, zero”.
“Se tu mi chiedi di oscillatori, non so di cosa tu mi stia parlando; se mi chiedi quali plug in uso, ti dico che manco li ho; uso Ableton, che va benissimo, già lui da solo mi dà una totale vastità di opzioni, e se certe cose le faccio ‘male’ – e lo so che è così, almeno dal punto di vista tecnico – è perché voglio mantenere un approccio puro, diretto, senza nessuna forma di mediazione e di interferenza. Uso molto intervenire analogicamente, quello sì, mi dicono tutti ad esempio di usare Granulator perché mi semplifica e velocizza la creazione di una serie di soluzioni che nella mia musica appartengono molto, ma non ce la faccio, faccio tutto a mano, mi viene da fare così”.
“E vale anche per i testi. Guarda che molti testi nascono improvvisando nei live, sai? Perché in questa mia nuova vita artistica spesso suonavo i pezzi vecchi e dei pezzi nuovi avevo solo qualche demo, ma li mettevo dentro in scaletta, e poi ci improvvisavo sopra con la voce. Certe volte il risultato è stato così convincente che poi il pezzo finito nasceva dall’idea di quella sera lì, tirata fuori dal nulla, tirata fuori improvvisando”.
“Ora capisci perché ogni tanto certi passaggi dei miei testi sembrano assurdi…”.
“Ma tutto quello che sto facendo ora è un processo potente, credo. Per me e su di me lo è di sicuro, ecco. È una catarsi. Magari riesci ad esserlo, potente, anche per qualcun altro – sarebbe bello accadesse, e a vedere i messaggi che ricevo sembra stia accadendo. È bello pensare di poter riempire la vita o anche solo una serata di un’altra persona con la propria musica, quando sai che questa musica è tua, tua al 100%, non un prodotto industriale, non qualcosa che altri hanno confezionato per te stravolgendola. È una emozione completamente diversa. È una emozione che non voglio abbandonare più”.
(continua sotto)
Sì. Forse finalmente sta accadendo. Forse nell’indie italiano iniziano ad esserci un po’ più di artisti che accettano di buttarsi senza rete e di presentarsi al mercato – che brutta parola, il “mercato” – essendo quello che sono, storture comprese, stranezze comprese, non quello che il mercato gli consiglierebbe di essere. E forse anche l’elettronica, una volta applicata a questa nuova generazione di cantautori che non fanno differenza fra il punk e Flume, fra la forma-canzone e il rave destrutturato, potrebbe finalmente tornare ad essere la musica di chi vuole sfidare la maggioranza e cercare emozioni non telecomandate, invece di concentrarsi riempire arene, statistiche di stream e i conti in banca.
A noi, EMMA è piaciuto molto.
Basta formule vincenti, artisti vincenti. Fuori il cuore. Fuori sangue, sudore, lacrime. Fuori le emozioni non standardizzate, non omogeneizzate. Davvero. Facendosi male su palco e con release strane, non solo a parole. L’indipendenza e la libertà si conquistano (anche) così.