Esattamente come la sua musica, Phillip Sollman è difficile da inquadrare. Enigmatico e ricco di mistero, il suo sound affonda e tocca le viscere più profonde come una lama affilata, ma non dimentica la testa, e con classe indiscussa arriva nei piedi di chi danza, e nei cervelli di chi pensa, al punto a volte da sfiorare il virtuosismo e risultare roba da nerd. Proprio come lui: dimesso e schivo quanto basta per rischiare di risultare antipatico (e non lo è affatto), rotto il ghiaccio, ci racconta con una tale naturalezza della sua divinizzata professione, che sembra quasi parli di quando va a fare la spesa. Eppure, penso, è il resident di uno dei club più storici d’Europa, il Panorama Bar di Berlino, agli albori del suo debutto nel 2007 è stato incoronato produttore dell’anno da niente meno che la Bibbia del dancefloor Resident Advisor, e come se non bastasse a tre anni di distanza è riuscito a soddisfare le aspettative di tutti con “Chicago”, che riconferma il suo talento artistico senza però scadere nella scontatezza di sonorità già inflazionate. Sentiamo allora come ha fatto a rendere tutto questo così “normale”.
Nativo di Amburgo, cui sei peraltro legato dalla Dial Records, trapiantato a Berlino per ovvie esigenze professionali, omaggi Chicago nel tuo ultimo album, dal titolo omonimo. Tre realtà musicalmente molto differenti tra loro, eppure tutte in egual modo presenti nel corso della tua formazione artistica. Che cosa rappresenta per te ciascuna di esse? Si tratta di un’evoluzione?
Sono nato a Kassel (famosa per lo show internazionale di arte “Documenta”. Una volta finita la scuola mi sono trasferito ad Amburgo, dove vi rimasi per otto anni. Successivamente venne Vienna, dove studiai per alcuni anni prima di spostarmi a Berlino nel 2005. Ogni città una sua scena unica e ha avuto un certo tipo di influenza sulla mia evoluzione. Chicago non è tra quelle in cui ho vissuto finora, quindi il titolo dell’album è da definirsi più come un titolo metafisico che un riferimento diretto alla Chicago house, e ciò ha confuso alcune persone. La musica di questo album trova riferimento nelle molte influenze provenienti da altri stili musicali e tempi. “Questo è un disco “Chicago house?” No! Ma questa città ventosa è stata la prima a soffiare nel cosmo una musica cosi astratta, sviluppata in mille direzioni diverse. Arte, letteratura, jazz, musica folk americana, hip hop… Chicago sembra essere la fonte dalla quale sono nati tantissimi movimenti che hanno condizionato il mio lavoro. Dunque, si potrebbe dire che Chicago è il simbolo delle utopie che stiamo per perdere.
Cominciamo da Amburgo, che non è propriamente conosciuta per essere la patria dell’elettronica diciamo. E’ una città decisamente sui generis per essere tedesca, dall’allure molto britannico, e non solo dal punto di vista architettonico. Da sempre infatti è il rock a regnare sovrano nel panorama musicale locale, e a quanto mi risulta pure tu hai militato in una band post-rock agli inizi della carriera, con Pantha du Prince tra l’altro. C’è quindi un tocco rock nelle tue produzioni?
Sono così tante le influenze che toccano il mio lavoro che certe volte è quasi insopportabile. Vengo permeato dagli stimoli più disparati, e ciò da un lato mi infastidisce e mi destabilizza, ma dall’altro mi fa anche sentire che tutto alla fine ha un senso compiuto. Diversi stili di musica rock hanno un forte impatto su quello che faccio, tanto che in questi giorni mi ritrovo spesso nel mio studio a suonare strumenti a corda… Vedremo a cosa porterà. Date pure uno sguardo al mio profilo su Mixcloud, ci sono dei bei dj set di no wave-country-postrock-pysche-kraut!
Com’è avvenuta la conversione all’elettronica? E’ stato difficile farsi strada in un ambiente seppur velatamente ostile? Una realtà piccola non deve aver certo favorito l’avvento di novità che rompessero con la tradizione radicata di una vita.
Mi ricordo molto bene di come eravamo dei viaggiatori “interplanetari” nei tempi addietro di Amburgo. Frequentare la scena rock n’roll, ma sognare la techno allo stesso tempo. Ascoltare i Sonic Youth, Robert Hood o Photek allo stesso tempo era la nostra realtà, ed è più o meno lo stesso anche ora. Non mi limito mai a frequentare un solo tipo di scena o ad ascoltare un solo tipo di musica.
Immagino che quest’esperienza nella band ti sia servita anche a livello tecnico, ovvero nell’approccio agli strumenti. Nell’era in cui è sempre più facile per tutti produrre digitalmente musica di medio livello, piatta e spesso spersonalizzante, pensi che faccia la differenza per un buon dj saper suonare uno strumento come si deve?
Non credo che saper suonare uno strumento aiuti le persone a creare dei bei dischi techno. Onestamente penso che funzioni al contrario. Quando troppa musicalità e virtuosità entrano in questo tipo di musica non mi viene voglia di ballare, mentre una 909 pompata e alcuni effetti strampalati riescono ancora a ipnotizzarmi dopo tutti questi anni.
La qualità della musica non dipende da standard tecnici, ma il problema di questi giorni è che le persone sono dannatamente pigre e usano file preconfezionati che finiscono per far suonare tutte le tracce nello stesso modo.
Viviamo in un’era generica, e questo spiega anche perché certe persone che vogliono distinguersi dalla massa credono che sia sufficiente essere i proprietari di una drum machine analogica e registrare noiosissimi drum loops che suonano come copie cinesi del preset originale.
Che consiglio daresti quindi alle nuove leve che si affacciano oggi al mondo della produzione e del djing? Le possibilità che si prospettano sono infinite, sia per quanto riguarda i programmi che i supporti, per non parlare della differente resa che deriva dalle scelta dell’uno rispetto all’altro, e il rischio è quello di perdersi in una giungla tecnologica. Ableton o Logic? Groovebox o controller MIDI?
Non posso aiutare a livello tecnico, ma a livello artistico darei il semplice consiglio del “segui il tuo cuore, ascolta te stesso”, non perdere il tuo tempo a cercare di suonare come gli altri. Non importa che cosa usi, qualunque software va benissimo per lavorare e ottenere dei risultati.
A proposito di strumenti, a cosa si deve invece l’interesse che agli albori della tua carriera hai dimostrato per la musica classica? Ascoltando le tue produzioni si avverte un diffuso e costante alone di teatralità, una sorta di substrato di rarefatta malinconia che definirei quasi il tuo timbro caratterizzante. Non a caso hai studiato all’Accademia di Vienna e sei diplomato in violincello.
Non ho un diploma in violoncello, anche se mi avrebbe davvero fatto piacere averne uno! Ho sempre suonato degli strumenti, e torno spesso a suonarli, la maggior parte delle volte per cercare di tirare fuori dei suoni interessanti con i quali poter lavorare. A Vienna ho partecipato a un corso di musica elettroacustica che è stato molto utile e mi ha aiutato a concentrarmi sui miei progetti. La mia teatralità si è evoluta in un modo più sublime, ma è sempre ben presente in tutti i miei pezzi. Il violoncello potrebbe essere la ragione della sua esistenza… Ahahah!
Ahahah sicuramente, abbiamo svelato il mistero dunque! (ndr: Google deve aver confuso le bio di Efdemin con quelle di Mozart… Mai fidarsi dei motori di ricerca!). Mi desta una certa curiosità il passaggio da Amburgo a Berlino, un salto non indifferente oserei dire. Quanto ha significato per la tua evoluzione musicale la cultura del party che impera nella città tedesca? L’atmosfera berlinese si respira imponente in ogni tuo pezzo, e sembra di quasi di viverli insieme a te quegli immensi spazi vuoti, in una sorta di empatia cosmica immagine-suono.
E’ difficile spiegare esattamente come, ma Berlino mi ha certamente influenzato molto. Ciò che posso dirvi è che subito fin da quando ci misi piede per la prima volta mi ha dato una incredibile quantità di stimoli. E non solo per la scena del clubbing, ma per il feeling generale della città con gente sempre più bella e impegnativa che ci si trasferisce ogni giorno. Vienna è stata come un bozzolo per me. Studiare, leggere, ricercare… Fu come risvegliarmi da un letargo quando arrivai a Berlino nel 2005. Siccome sono sempre in viaggio come dj non ho modo di starci più molto purtroppo. Mi piacerebbe poter avere più tempo libero per uscire in questi giorni!
Ma nel tuo ultimo album hai scelto di celebrare un’altra città se non sbaglio. Innanzitutto, sei mai stato a Chicago? Più che una vera e propria celebrazione dichiarata, l’album mi è sembrato piuttosto un sottile ed elegante omaggio alla tradizione deep della città statunitense, pur sempre molto personale e mai distante dalle sonorità dub che ti contraddistinguono. è questo ciò che intendevi trasmettere? D’altronde, “there is no Chicago urban blues”, cantavano pure i Prefab Sprout, la tua pop band di riferimento.
Vorrei lasciar parlare la musica in questo caso, specialmente dato che è passato un pò di tempo da quando ho realizzato l’album. Spero che capirete. Sono stato a Chicago una sola volta ed è stato bellissimo, è una città che vorrei esplorare più profondamente al più presto.
Trovo peculiare e unico nel suo genere come sei riuscito a conciliare nella tua musica due eredità tanto ingombranti, e penso che sia in assoluto il tuo punto di forza. Fondere in modo così armonico il ritmo caldo e avvolgente dell’house vecchia maniera con quel suono liquido e alienante tipico della techno più ossessiva, innescando tra sospensioni deep e incastri ritmici old school tastiere stordissime e ipnotiche, non è cosa da tutti. O meglio, oggi come oggi molti tentano questa via ma davvero in pochi riescono a metterla in pratica così naturalmente, creando un effetto quasi magnetico all’ascolto. Se poi per il master hai a disposizione qualcuno come Rashad Becker, allora si può davvero auspicare alla perfezione. Quanto è importante l’insegnamento Basic Channel per te?
Ecco, i Basic Channel sono stati una delle più importanti influenze sulla mia musica, e so che non riuscirò mai ad ottenere un suono così perfetto ma sporco allo stesso tempo come il loro, non importa quanto io ci possa provare, ed è una bellissima eterna provocazione nei confronti del mio lavoro. Rashad Becker è una persona molto concentrata e dedicata al suo lavoro dalla quale ho imparato moltissimo. Continua a prendermi in giro ogni volta che fa un master a un mio pezzo chiedendomi da quale disco dei Basic Channel ho campionato il sibilo che si sente in sottofondo!
Da non trascurare inoltre la secolare tradizione hip hop della città americana, con nomi del calibro di dj Premier, De La Soul, per non parlare di RZA, leader del Wu-Tang Clan. In cosa nello specifico sei stato influenzato dalla scuola dell’East Coast? Il recente ritorno alle origini che si registra ovunque col rispolvero del vecchio campionamento lo-fi, alla ricerca del suono sporco, vibrante, a volte addirittura rumoroso, mi sa tanto essere figlio di queste produzioni, oltre che della classica house, e tutta la Dial sembra aver piacevolmente cavalcato l’onda. Merito anche di John Roberts?
Credo che ognuno di noi abbia sviluppato il suo stile negli ultimi anni, ma condiviamo interessi simili verso le cose che ci circondano. John Roberts non è solamente un buon produttore ma anche una persona molto carina e sveglia, che si inserisce perfettamente nella famiglia Dial. Quando ho ascoltato il suo album per la prima volta mi sono sentito come se mi venisse ricordato da dove siamo venuti originariamente. Nella mia musica il campionamento e i rumori di fondo sono dei benchmark molto importanti, e credo che RZA sia uno dei produttori più talentuosi di tutti i tempi.
Con un tale background alle spalle mi viene naturale riflettere sul tuo approccio alla produzione. Come arrivi all’elaborazione di un pezzo? Cerchi il loop perfetto fino allo sfinimento con cura maniacale, arrangiando la traccia in base allo schema precostituito che hai in mente, o ci arrivi più istintivamente, assecondando il loop stesso e lasciando che il pezzo ci si costruisca sopra attraverso altri livelli? In gergo si dice che il loop dovrebbe essere la rumorosa piattaforma del pezzo, giusto? Sono due metodi completamente diversi, che prevedono un lavoro di tipo opposto. Mi viene in mente più la seconda ascoltando le tue produzioni, correggimi se sbaglio. L’impressione che si vorrebbe dare è quella di un pezzo fresco quanto più possibile, quasi suonato live sul momento, dunque decisamente più ballabile.
Nel corso degli ultimi anni la mia musica è cambiata molto, dall’essere costruita attorno a una scaletta con tutti gli elementi arrangiati sullo schermo ad un approccio più vivo, organico e “live” che è venuto alla luce man mano che suonavo con sempre più strumenti sparsi in giro per il mio studio. Al momento sto assemblando un nuovo studio e non vedo l’ora di poterci entrare per smanettare con le manopole! La produzione con campionatori, effettiere e drum machines è semplicemente più divertente nella creazione di una traccia, ma mi ritrovo ogni volta con tonnellate di registrazioni che poi devo sempre riordinare più tardi.. Il mio hard drive è incasinatissimo!
Dando un’occhiata alla discografia ho notato che, dopo “Chicago”, ti sei dedicato principalmente agli EP, ultimo il 12 pollici “Please” uscito su Curle Recordings. Immagino sia una scelta ben ponderata, e certamente controcorrente rispetto alle richieste del mercato. Che cosa prediligi dell’EP? In fondo si tratta di un album in miniatura, forse per questo più curato magari. C’è qualcosa in più?
Non c’è nessuna strategia, volevo solo fare uscire della buona musica. Al momento mi sto concentrando sulle mie etichette “Naif” e la nuova “LirumLarum”. Presto verranno pubblicati dei bei pezzi, vedrete!
Per quanto riguarda invece i remix di “Chicago”, dove nasce l’esigenza di realizzare una seconda versione di un proprio pezzo? Da insoddisfazione verso il proprio lavoro o da instancabile ricerca della perfezione? Come hai scelto a chi affidare i pezzi? Koze e Portable, che hanno curato i remix rispettivamente di “There will be singing” e “Night Train”, sono due portavoce dell’approccio “a livelli” di cui si parlava prima.
Onestamente, l’intenzione era quella di far uscire solo un EP di remix, ma tutti i remixer finirono con il consegnarmi versioni più lunghe di nove minuti, e non potevano starci tutte su un solo disco in vinile. Ma ho apprezzato l’opportunità di avere un altra cover art fatta da Bertrand Goldberg oltre che della musica stupenda. Amo ognuno dei cinque remix, non posso dire quale preferisco di più ed è molto bello ricevere un “trattamento” musicale da persone che sono anche cari amici come Portable o Rndm, o da persone che conosco molto bene e rispetto sia per le loro produzioni che per la loro personalità.
Si è parlato di produzione, perchè ovviamente è quello che conta di più. O no? Mi spiego. Non ho ancora capito quanto per voi produttori conti il dj set. Certamente il valore aggiunto di una traccia lo si può stabilire solo sul dancefloor e dipende da molteplici fattori, acustica e impatto col pubblico in primis. Cosa pensi dei tuoi pezzi da questo punto di vista? C’è qualcosa che cambieresti?
La maggior parte delle mie tracce non hanno l’obiettivo di essere orientate verso i dancefloor. I miei dj set a volte si spostano di molto dallo stile della mia musica, ma io mi definisco come un dj che suona la musica degli altri, che racconta una storia senza fare uno showcase delle proprie produzioni sin da quando ho cominciato.
Tornando al dj set, molti cambiano radicalmente stile tra ciò che producono e ciò che suonano, al punto tale che a volte perdono credibilità artistica e personalità. Tu come ti consideri? Cosa suoni rispetto a quello che produci? Ti piace quello che senti a giro dai tuoi colleghi o prediligi dischi più classici? Qualche nome di traccia altrui a cui non rinunceresti mai in un DJ set?
Cerco di mixare dischi classici con roba contemporanea sin dal principio. Lo si può sentire anche dal podcast che ho appena terminato. Si muove avanti e indietro in tempi e stili, ma questa volta è più concentrato verso il lato techno delle cose. Una canzone che ho sempre nella mia borsa è Heath Brunner “Senses” e probabilmente ci rimarrà per sempre!
Immagino che tu sappia piuttosto bene come accattivare nuovi adepti. Quale tuo pezzo consiglieresti da ascoltare come inizio a chi non ti conosce?
Tempo addietro, nel 2008 per la precisione, registrai un cd mix per la Curle intitolato “ Carry On – Pretend We Are Not In The Room”, e posso felicemente constatare che tuttora rappresenta molto bene il mio suono e il mio stile di djing. Forse ora si è spostato più verso il lato techno, ma la sintonia è la stessa! Oppure ascoltate questo podcast!
English Version:
Exactly like his music, Phillip Sollman is hard to define with specific words. Enigmatical and misterious, his sound pierces the body and reaches deep inside, just like a sharp blade, though it does so with undisputable class, reaching both the dancer’s feet and the brains of those who love to think, up to the point of seeming a form of virtuosity for nerds. Efdemin, humble and coy to the point of looking almost unsympathetic (which he is absolutely not), once at ease starts talking about his exalted profession with such fluency as if he’s talking about a trip to the supermarket. But, I think to myself, he’s the resident dj of one of Europe’s most renowned clubs, Berlin’s Panorama Bar, and in 2007 he has been crowned as producer of the year by Resident Advisor, which is considered by many as a bible for all dancefloor addicts, and as if that wasn’t enough, three years after that he managed to meet everyone’s expectations with “Chicago” which reconfirms his artistical talent without falling in the banality of proposing overinflationed sounds. Let’s hear how he has managed to make all this become so “normal” for him.
Native of Hamburg, with which you have Dial records in common, now Berlin citizen for obvious professional reasons, you pay homage to Chicago in your last album, with the homonym title. Three very different musical realities, but all of them next to your artistic formation. What does everyone of these realities represent to you? Is it an evolution?
I was born in Kassel (famous for the international art show “Documenta”). After school I moved to Hamburg, where I stayed for 8 years. Next came Vienna where I studied for some years before moving into Berlin in 2005. Each city had a unique scene and a certain influence on my evolution. Chicago is not among the cities I have lived in until now. So the album title is commemorated more as a metaphysical title than a direct reference to Chicago house music, which some people got confused with. The music on this album refers to many influences from other fields and times. Is this a “Chicago-house” record? No! But the windy city was the starting point to blow the cosmos with such abstract music developed in a thousand directions. Art, literature, architecture, jazz, american folk music, hip hop – Chicago seemed to be the source of reference for so many important movements crossing my work. Finally Chicago stands for utopias we are about to loose.
Let’s start from Hamburg, that is probably not known as the main city for electronic music. It’s surely a variant city, not maybe as other german cities, a lot british style, not only on the architectonic point of view. Indeed it has always been rock the most important kind of music, and I might be right if I say you were part of a post rock band too at the beginning of your career, also with Pantha du Prince. So is there a bit of a rock n roll influence in your productions?
There are so many influences that cross my work, sometimes it’s too much to handle. I am traversed by so many different ascendancies it bothers me I’ll get lost in between. But on the other hand I feel more and more like it all makes sense. Rock music of diffent kinds has a strong influence on what I do. These days you would find me playing a lot of string-instruments in the studio… Let’s see where that leads to. Check my Mixcloud profile for some proper no wave-country-postrock-pysche-kraut-dj-sets.
How did your conversion to electronic music get through? Was it difficult to get in such an hostile world? A small reality hasn’t certainly helped the coming of newnesses which would have changed traditions of a life.
I do remember very well how we were wanderers between worlds back in the days in Hamburg. Hanging out with the rock’n’roll scene but dreaming of techno at the same time. Listening to Sonic Youth and Robert Hood or Photek at the same time was our reality. And it is pretty much the same until this day. I would not limit myself to hang out with one certain scene or listen to one kind of music.
I suppose your experience in the rockband has been technically useful to you, I’m talking about approach to instruments. We live in a time in which is much easier to everyone to create a middle level digital sound, without personality. Do you think it could be better for a dj to be able to play a real instrument?
I don’t think playing an instrument helps people making good techno records. Honestly I think it is the other way around. When too much musicality and virtuosity comes into this kind of music, I don’t feel like dancing, while a cranked up 909 and some weird fx are still able to hypnotise me after all these years. Musical quality does not depend on technical standards. But the problem these days is that people are so damn lazy using pre-produced files and end up all sounding the same. We live in generic times. That also explains why some people who want to distinguish themselves distinct think it is enough to own a real physical drum computer and record boring drum loops which sound like chinese copies of the original.
What advice would you give to those who are for the first time part of production and dj’s world? Possibilities are endless, for programs and supports, and results that come from the choice of one or another are very different, and the risk is not to be able to make a choice itself. Ableton live or Logic? Groovebox or controller MIDI?
I can’t help on the technical level, but on the artistic level I would give the simple advice: follow your heart listen to yourself – don’t waste your time trying to sound like others. It does not matter which tool you use, any software is cool to work with.
Going back to instruments, could you explain the attention you payed to classic music in the first years of your career? In your productions a constant theatricalism comes out, a theatricalism that I would define as one of your pecularities. It’s not a case if you studied at Vienna Academy and you have a licence in cello.
I don’t have a license in playing the cello, although I wish I had! But I have been playing this instruments for a long time and I keep coming back to play, mostly trying to find interesting noises I can work with. In Vienna I attended a course for Electroacoustic Music which was very interesting and helped me to focus on music. My theatricalism has changed into a more sublime way, but it is still there. The cello might be the reason for its existence… Ahahah!
Ahahah of course it might be, now we know for sure! (ndr: Google might be confused Efdemin’s bio with Mozart’s one eheheh… Never trust in search engines!). So you moved to Berlin: that intrigues me, an important choice I think. Which influence has german capital’s party culture had on your musical formation? Berlin’s atmosphere can be strongly felt on every track of yours, and it seems to live those empty big spaces by your side, in a sort of sound-image cosmic empathy.
It’s hard to tell what exactly is the impact Berlin has on me, but it definitly has. What I know is that Berlin pushed me very much when I first moved here. But not only the club scene did influence me, but the overall vibe here with more and more beatiful and challenging people moving in everyday. Vienna had been a kind of cocooning for me. Studying, reading, researching… So it felt like waking up from a hibernation when I moved to Berlin in 2005. Since I travel a lot as a DJ I am not around in Berlin too much any more. I do miss going out a little bit these days!
But in your work you’ve been celebrating another city. First of all have you ever been to Chicago? More than a real declared celebration, I think your album is an elegant and delicate homage to deep traditions of the US city, but still in a very personal way and not far from your tipical dub sonorities. What did you really want to comunicate? However, “there’s no Chicago urban blues”, that’s what Prefab Sprout, your favourite pop band, used to sing.
I would love to let the music speak for itself in this case, especially as it has been a while since I recorded it. Hope you do understand. I have been to Chicago once and it was a blast – A city I want to explore more deeply as soon as possible.
I think your absolute strenght is the way you are able to link the worm and wreapping rythm of house music with the liquid and soul destroying sound of an obsessive and fading techno. It’s not easy to here hypnothic keyboards between deep suspended beats and old school rythmic grooves. What I mean is that nowadays many djs get involved in this method but only a low number of them is really able to use it in such a natural way, creating a kind of magnetic effect during the listening. And if you have someone like Rashad Becker for the master then your target can also be perfection. How important is Basic Channel lesson to you?
Well, Basic Channel might be one of the most important influences to my music, and I know that I will never get to a point where my music sounds as perfect but dirty at the same time, no matter how hard I try, but that is a very good eternal defiance for my work. Rashad Becker is a very focussed, dedicated person I have learned a lot from. And he keeps making jokes when mastering my music, asking me from which Basic Channel I sampled the hiss in the background of my song!
I think it’s also important to consider the centurist hip hop traditions of the american city, with names like Dj Premier, De La Soul, and in particular RZA, leader of the Wu-Tang Clan. Where do you think you have specifically been influenced by the East Coast school? There’s been a recent turn to origins that can be found everywhere in the brush up of the old lo-fi sampling, with a research of a dirty vibrant and a kind of noisy sound. And in my opinion all of this comes from those productions, as well as classic house. And Dial seems to appreciate the scenery. Is it thank to John Roberts too?
I think all of us have developed our own style over the last years, but we share similar interest in things around us. John Roberts is not only a very cool producer but a very smart and lovely person, fitting the Dial family perfectly. When listening to his album first, I felt like being remind me where we came from originally. In my music, sampling and noise are very important benchmarks, and I think the RZA is one of the most gifted producers of all time.
With such a background it comes natural to me to wonder about your type of approach to production. How do you get to a track’s elaboration? Do you look for the perfect loop with a maniacal attention till the exhaustion, arranging the song by following the pre estabilished plan of your mind, or do you act more instinctively, supporting loop itself, and letting music build on it by other layers? In slang it’s useful to hear that loop should be the noisy floor of the track. Is that right? These are two complete different methods, that need two opposite types of worksheets. I might be wrong, but when I listen to your productions, the first that comes to my head is the second one. The impression it takes is of a fresh song, as much as possible, that seems to be played at the moment, and surely more danceble by the way.
Over the last years my music changed a lot from being built around a timeline with mostly everything being arranged on screen to a more lively, organic and live approach which came with more and more gear I played around in the studio. I am building a new studio at the moment and I can´t wait to get in there and twiddle the knobs! Production using samplers, fx and drummachines is simply more fun in the making, but I end up with tons of recordings I have to organize later… My hardrive is a mess!
While I was taking a look to your discography, I noticed that after Chicago you’ve dedicaded your time especially to EPs, the last one is the 12″ “Please” from Curle recordings, I suppose this to be an accurate decision, and certainly against trade’s demand. What do you prefer about EPs? It’s only a mini album by the way, probably tidier for this reason. Am I missing something? Is there something more about it?
No stragegies involved. I just wanted to put out some nice music. At the moment I focus on my labels Naïf and my new one LirumLarum. Some nice music coming soon!
With regard to the Chicago remixes, where does the need to realize another version of an own song comes from? Is that an unsatisfaction or a tireless research of perfection? How have you choosed those you gave your songs to be remixed? Koze or Portable, which have mixed “There will be singing” and “Night Train”, are two of the main characters of the layers approach we were talking about earlier.
Honestly, the intention was to put out just one remix ep, but all of the remixers ended up with versions each being longer than 9 min, so they didn’t fit on one vinyl-disc. But I did appreciate the opportunity to have another cover artwork by Bertrand Goldberg as well as the beatiful music. I love each of the five remixes, can´t say which one I like the most and it does feel very nice getting musical treatments from people who are close friends like Portable and Rndm or from people I know well and respect both their production as well as their personality.
We’ve been talking about production, this because is the most important aspect, isn’t it? I’ll be clear: I haven’t understood how much dj set is important to producers as you are. Without a doubt the strenght of a track can only be explained on the dancefloor and depends on a lot of aspects as acustic and impact to audience. What do you think about your songs by this point of view? Is there something you would change?
Most of my tracks are not focussing on the dancefloor on the first hand. My DJ-sets move away from my own music a lot sometimes, but I regard myself as a DJ who plays other peoples music, telling a story and not showcasing my own production since I started.
Back to djset, I would say a lot of artists change radically style between what they produce and what they play, sometimes losing artistic and personal credibility. What about you? Do you like what nowadays you listen from your colleagues or do you prefer classic records? What if I ask you a track you would never renounce on your djsets?
I try to mix classic records with contemporary stuff since the beginning. You can hear that in the podcast I just finished. It moves back and forth in times and styles, but it’s mostly focussing on the techno-side of things this time. One track I always have in my bag is Heath brunner – Senses. Maybe forever!
I imagine you know how to conquer audience. But which of your tracks would you advise to people who would like to get to know you?
Back in 2008 I recorded a mix cd for curle called “Carry on – pretend we are not in the room” which I can happily say is still pretty much representing my flavour and my djing. It may have moved a bit more on the techno-side of things these days, but it’s the same vibe. Or listen to this podcast!