Il mondo del clubbing è un camaleonte che ha saputo re-inventarsi e adattarsi in base alle necessità almeno un milione di volte. Non è un modello prestabilito, non lo sarà mai. La discoteca è stata luogo esclusivo e rifugio sociale, nazionalpopolare e controversa, frivola e impegnata. Eppure, mai come ora, sembra essere in un periodo di crisi, o comunque di grande transizione.
Discorivoluzione cerca di mettere assieme i pezzi: una storia che parte da lontano, vista con gli occhi di chi ne vive il presente e cerca di immaginarne il futuro. Prendete cinquanta studenti del Politecnico di Milano, due promoter di razza come Marco e Albert di Le Cannibale e provate a organizzare una mostra al Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano. Un totem della cultura cittadina ben felice di accogliere il nostro mondo per un intero weekend, dal 3 al 5 Marzo, con una mostra interattiva (aperta tutto il giorno) e una selezione musicale curata rispettivamente da Daniele Baldelli il venerdì e Lena Willikens il sabato, in un viaggio che cerca di immaginare nuove intersezioni culturali, per vedere cosa succede a prendere sentieri meno battuti e unire pubblici diversi.
Abbiamo voluto approfittarne dell’occasione per fare due chiacchiere coi ragazzi di Le Cannibale e provare a mettere a fuoco assieme gli aspetti filosofici dietro questa iniziativa.
Vi faccio subito una domanda che è un po’ battuta e un po’ provocazione: siamo in un periodo storico in cui si dice che il club stia morendo, che forse saremo noi a portarlo nella tomba. I ragazzi di oggi non sembrano più così interessati ad andare a ballare. Che eventi come questo siano la certificazione dell’essere diventati materiale da museo come gli scheletri dei dinosauri?
MARCO: Esattamente l’opposto. Innanzitutto, parliamo di un museo particolare come il padiglione d’arte contemporanea, che per antonomasia riflette su ciò che non è desueto ma ancora attuale. La nostra analisi non è esclusivamente storica o storiografica, ma nasce bensì dalla volontà di ragionare su quali siano il presente e il futuro del clubbing. Potrà essere ancora un avamposto di avanguardia? Saprà continuare ad anticipare i cambiamenti della società contemporanea? Non è nostra intenzione fare un’operazione esclusivamente di nostalgia estetica, ma bensì confrontarci e parlare di futuro. Non crediamo che arriveremo alla morte del club, ma a una sua evoluzione a cui, per certi versi, stiamo già assistendo.
ALBERT: A mio avviso stiamo assistendo non tanto alla fine di una realtà, quanto alla trasformazione di alcuni suoi aspetti. In questo momento il terreno appare fertile per contaminazioni fra il mondo della musica e altri ecosistemi come quello delle arti. Non solo per quanto riguarda il contenuto ma anche per la forma come, ad esempio, scegliere una location insolita come un museo. Rapportarci con realtà molto dissimili dalla nostra, con linguaggi spesso differenti, è stato un buon modo anche per variare il modo in cui proponiamo eventi in maniera del tutto genuina, cercando di non snaturare il nostro modo di fare.
Una domanda però: visto che Discorivoluzione nasce in collaborazione con cinquanta studenti di design del Politecnico di Milano – alcuni dei quali, per loro stessa ammissione, non erano mai entrati in un club – che tipo di rapporto avete notato ci fosse tra loro e il mondo che dovevano raccontare?
MARCO: Ricordando che si tratta comunque di un campione molto ridotto e che non vogliamo utilizzarlo per bollare il pensiero di un’intera generazione, parliamo di ragazzi che – per un fattore estemporaneo come il COVID – non hanno potuto fruire pienamente di tutte quelle esperienze seminali legate al mondo della notte che solitamente si iniziano a vivere proprio a quell’età. Inoltre, ci siamo subito accorti di essere alle prese con una generazione lontana anni luce da quelli che per noi erano i punti di riferimento storici del clubbing.
Forse sono cambiati anche i bisogni che spingono le persone verso un certo tipo di clubbing?
MARCO: È una generazione quasi completamente intaccata rispetto a quelle che sono le tematiche storiche del clubbing. Per loro lo Studio 54 è davvero materiale archeologico, persino il Berghain per certi versi.
ALBERT: Bisogna anche analizzare in modo cronologico tutto questo: ormai quando si parla di Studio 54, Paradise Garage o altre istituzioni dell’epoca, si tratta di qualcosa che ha letteralmente mezzo secolo di storia in mezzo. È come quando noi avevamo quell’età e ci parlavano di Woodstock o magari (estremizzo) nella Seconda guerra mondiale: qualcosa che è esistito, certo, che hai le nozioni per capire, ci mancherebbe, però non puoi necessariamente sentirla come un’eredità intellettuale che detta il modo in cui vivi la tua quotidianità. C’è uno stacco enorme a livello temporale e generazionale. Ci interessa però vedere come questo tipo di progetto, di stimolo porterà questi ragazzi a ragionare sul tipo di esperienza che possono trarre da questo ecosistema.
Ci dimentichiamo facilmente che essere ragazzi voglia anche dire, a volte, voler bruciare tutto quello che è venuto prima e ricostruire coi propri stilemi. Quell’attitudine un po’ punk di rifiutarsi di vivere all’ombra delle Cattedrali dei propri padri. Me lo aspetterei come approccio, no?
MARCO: Ti dirò: non abbiamo avuto la sensazione che quel tipo di conflitto intergenerazionale dominasse le loro coscienze. Questo mi sembra possa valere in toto nella società attuale, non solo nel clubbing. Sembra ci sia meno rottura generazionale nei giovani rispetto ad anni burrascosi come il ‘68 o gli anni ‘80, che invece sì erano state enormi rivoluzioni socioculturali rispetto ai costumi che venivano dal secondo dopoguerra. Quella attuale sembra essere una generazione divisa a metà fra una componente ultra-contemporanea che non ha nessun riferimento a quello che è stato e un’altra che invece subisce la fascinazione dei tempi andati, della riscoperta di periodi (magari) artisticamente più floridi.
ALBERT: Quello che è cambiato rispetto al passato è la sensazione di schieramento ideologico che comportava la scelta fra una o l’altra direzione: quando eravamo ragazzi noi, se eri del rock non eri della dance, anzi ti insegnavano che dovevi essere non solo del tuo schieramento, ma anche contro l’altro. Oggi forse queste barriere non sono più così presenti e i ragazzi riescono a interessarsi di tante cose diverse anche allo stesso tempo. Senza porsi limiti o preconcetti, cambiando direzione in maniera più fluida.
Provando a ribaltare leggermente la discussione, anche il rapporto tra il mondo dell’arte nella sua accezione “classica” e quello della musica, in particolare il clubbing, ideologicamente parlando sembrano a loro stesso modo due schieramenti dove il “nostro” lato si sente spesso guardato con un po’ di snobismo. Avendo collaborato spesso con questo mondo: troviate sia qualcosa di tangibile o più un complesso di inferiorità?
MARCO: Eh, è una domanda che ci viene spesso posta. Siamo sinceri: è innegabile che esista questa fenomenologia. La musica elettronica, rispetto ad altre forme d’arte – anche musicali – paga sempre un piccolo dazio quando si siede a un certo tipo di tavoli. Allo stesso tempo è giusto non perdersi in eccessivo pessimismo, soprattutto se pensiamo a quanto sono cambiate la credibilità della scena elettronica e dei professionisti che la abitano da quando abbiamo iniziato a fare questo mestiere, quindici anni fa. Infatti, eccoci qui a parlare di una mostra che racconta il nostro mondo, in collaborazione con entità istituzionali che credono nel suo valore culturale. Se siamo arrivati qui è perché, come scena, abbiamo fatto un percorso di crescita importante, con riconoscimenti anche a certi livelli. Con brand privati che finalmente capiscono il valore intrinseco di investire in questo mondo perché ne possono toccare l’indotto culturale ed economico. Ovviamente non è sempre stato così.
ALBERT: E la nostra collaborazione (ormai duratura) col PAC, con sempre maggior coinvolgimento, dimostra che esistano molte strutture “classiche” felicemente ricettive rispetto alla musica elettronica, agli eventi e alla possibilità di addirittura farsi contaminare un po’. Certo, credo sia un dato di fatto quello di non essere considerati alla pari di certe forme d’arte. Bisogna però ricordare che la mostra tratta un’analisi trans-nazionale che non inizia e termina con Milano, né tanto meno con l’Italia. Ci sono altri contesti dove è più facile sedersi a certi tavoli senza sentirsi fuori posto. Detto tutto questo: noi ci sentiamo ancora gente della musica elettronica, non vogliamo mollare il clubbing per come ci piace viverlo e raccontarlo. Semplicemente non possiamo ignorare che ci siano molte strade diverse che, crescendo come individui e come organizzazione, possiamo intraprendere per scoprire destinazioni inedite e sinergie dai risultati sorprendenti. Ci piace la sicurezza di avere un sentiero bello marcato da seguire, ogni tanto però è bello e stimolante anche andare fuori pista.
Che la famosa discoteca del futuro, di cui si tratterà in questo evento, possa passare anche da eventi dove non solo ci sarà una pista da ballo ma anche un proponimento culturale?
MARCO: È importante anche non incastrarsi dall’altro lato, cioè nella retorica che il clubbing debba per forza essere cultura. Può essere edonismo, escapismo, qualsiasi modo con cui si scelga di interpretarla. Questo vale per qualsiasi forma d’arte: dalla musica al cibo ad ogni altra cosa. Bisogna semplicemente imparare a non etichettare le cose, perché il rischio è che un prodotto si svuoti del suo contenuto o, peggio ancora, si finisca a fare delle guerre intestine in seno alla scena stessa per decidere chi è migliore e chi di Serie B, giusto per tornare al discorso di prima. Con i ragazzi del Politecnico abbiamo cercato di ragionare, nella maniera più imparziale possibile, su quelli che potessero essere le traiettorie del futuro per questi luoghi che, ancora oggi, possono essere dei veri e propri luoghi di negoziazione e di grande innovazione.
ALBERT: Il bello di lavorare con ragazzi così giovani è che le loro idee della discoteca non sono minimamente “inquinate” da tutti quei dogmi che chi fa parte della scena ha imparato a conoscere e (magari involontariamente) accettare come tali. Per tanti di loro il risultato di questo evento partiva da un esercizio di immaginazione, un sentimento purissimo che non andrebbe in alcun modo ostacolato ponendo inutili confini.
Facendo un immediato esercizio di questo concetto, ed evitando di inquadrarlo con le unità di misura classiche del clubbing, che tipo di aspettative avete rispetto al risultato di Discorivoluzione?
ALBERT: Torniamo al discorso del sentiero: la scelta imprenditoriale è quella di accettare tutto con la curiosità di vedere da che parte si può arrivare seguendo strane nuove, a condizione però di non perdere di vista le nostre radici. Ecco, la speranza è che la discoteca di domani sia esattamente come questo evento: qualcosa che sappia sorprenderci senza snaturarci e che sappia aprirsi a interpretazioni e fruizioni diverse.
Quindi vi piace l’idea che il visitatore tipico del PAC si fermi anche dopo la mostra per ballare e che il clubber venga anche alla mostra. E chissà, magari che si crei una sinergia fra i due target con risultati, appunto, inediti.
MARCO: L’obiettivo è sempre quello di non guardarsi soltanto allo specchio nella propria nicchia ma di cercare strade nuove, come diceva giustamente Albert. Questo evento cerca di colmare alcuni gap della scena canonica, che possono essere anagrafici o di fruizione o anche di mero interesse. In questo caso parliamo di una mostra che apre alle dieci del mattino e chiude alle tre di notte. La speranza è avvicinare – e magari mischiare – target diversi per vedere che succede. Per questo è stato scelto un luogo così “lontano” dal nostro mondo. Se l’avessimo fatto dentro a un club probabilmente avremmo parlato solo a un determinato pubblico che già conosce tanto di questo mondo. Organizzare dentro a un museo è una scelta non voglio dire politica, ma chiarisce subito quali sono gli obbiettivi di questa proposta.
Una mano tesa.
MARCO: E non certo per avere più credibilità, anzi. Ma per raccontare il club anche a un comparto sociale che magari lo considera lontano dai propri punti di riferimento abituali per una miriade di ragioni diverse.
ALBERT: Anche da qui passa l’imprevedibilità di questo evento. In questo contesto sarebbe ragionevole attendersi un target di pubblico anagraficamente più alto, però comunque ci sono cinquanta studenti che hanno pensato lo spazio e allo stesso lo riempiranno con i loro amici. Questo effetto potrebbe sparigliare le carte e dare una nuova chiave di lettura a tutto.