Se vi lamentate che in Italia non è mai possibile fare niente. Se vi lamentate che non solo siete in Italia ma vivete pure in provincia e non in una grande città, quindi figuriamoci. Se vi lamentate che il pubblico di casa nostra non ha gusto musicale, e quello che ce l’ha sono quattro stronzi e sempre i soliti. Se vi lamentate che non vivete a Londra (ehi, com’è andato il Bloc?) o a Berlino. Se vi lamentate, beh, per certi versi vi capiamo: lo facciamo anche noi. Eccome. Ma poi per quanto possibile cerchiamo anche di andare a magnificare gli esempi positivi, non solo elencare le magagne (o al contrario ricoprire di finto oro ciò che, sotto, è guano). A proposito di dialettica grande città / provincia: abbiamo sentito più di una persona dire negli ultimi giorni “La provincia è il futuro” – erano i reduci di Jazz:Re:Found a Vercelli (non certo una metropoli) e di Dancity a Foligno (non certo una metropoli).
Proprio il festival umbro è fresco fresco nella nostra memoria, essendo finito da pochissimo tempo. Un piccolo miracolo che anche quest’anno si è ripetuto. Un festival che fa esattamente quello che bisogna fare, in un modus operandi che spesso dalle nostre parti è rigettato come troppo ingenuo & poco furbo. Ovvero: partire dalle proprie idee, dalle proprie convinzioni e dalle proprie passioni. E farlo solo quando si ha la consapevolezza e la certezza di poter contare su un team di lavoro coeso, unito, che condivide in toto l’avventura intrapresa e il suo spirito. Quando le basi di partenza sono queste, e non invece scimmiottare gli eventi stranieri oppure inseguire prima di tutto i numeri e non ciò che si ritiene qualità, può succedere che le cose vadano bene. Molto bene. Può succedere che vadano di sicuro meglio che a quelli che magari sognano in grande, in un delirio di egomania, e poi si ritrovano ad aver scontentato tutti.
Dancity non si fa dettare le line up dalle richieste/pretese delle agenzie di booking e dai grandi potentati con agganci ad Ibiza né da una propria personale avidità economica. Lo capisci subito dalle line up di ogni edizione, dove c’è la mancanza dei “soliti” nomi e c’è invece un’abbondanza di progetti speciali, di nomi inusuali, perché c’è la consapevolezza che la buona musica in giro è molta. E’ molta se uno ha le orecchie per ascoltarla ed intercettarla, e non è invece obnubilato dal lato glamour ed edonista che circonda – pure troppo e da troppo tempo – la club culture. Lo capisci da come eroi locali, dal giovanissimo Furtherset quest’anno presentatosi col progetto Blissters creato col francese Antoine Mermet al supertalentuoso pianista jazz Giovanni Guidi che ha intrecciato meravigliosamente le sue doti creative col mondo digitale di Luomo, sono inglobati nella trama del festival. Segno che si sta dialogano col territorio su basi reali e profonde, non solo invitando il diggei locale di turno che ti può portare i cuggini e gli amici dei cuggini o peggio ancora quella che esprime l’organizzazione di pr più potente.
E poi ancora: a Dancity vedi scelte mirate, come Jimmy Edgar che presenta il suo live nuovo di zecca incentrato sul suo nuovo materiale Hotflush (dal vivo è meglio che su disco, tra l’altro), vedi celebrare come si deve un talento enorme e rispettatissimo da tutti coloro che di elettronica ne sanno veramente, quel Morphosis che è libanese di passaporto, berlinese di residenza ma che è praticamente un italiano adottivo (lui ha contraccambiato offrendo due set, uno più techno e uno più ambient, di una bellezza assoluta – musica che va ascoltata con concentrazione, che ti chiede tanto come attenzione, ma se gliela dai ciò che provi alla fine di un suo set è felicità pura). Continuiamo? A Dancity nomi “fuori moda” come il giro francese-non-chic composto da I:Cube, Gilb’r, Joakim ed Etienne Jaumet hanno carta bianca per portare un progetto speciale (esibirsi in quartetto live con sola strumentazione analogica: electro-house cosmica e commovente alle sei del pomeriggio) così come hanno slot importanti la sera, quando c’è da ballare e far riempire la venue.
E la venue si riempie. Si è riempita nella parte notturna al Serendipity, si è riempita all’Auditorium nella parte di prima serata, ha avuto una buona affluenza negli show pomeridiani a Palazzo Trinci. Il nome alla moda c’è stato, indubbiamente, ma è un nome comunque degno di rispetto: quello di Nicolas Jaar. Il quale Jaar, col suo live nella formazione a tre, ci ha confermato una nostra personale ma profonda convinzione: il ragazzo è bravo ma deve crescere molto, tutti gli elogi che sta ricevendo dal pubblico di matrice dance sono eccessivi e possono fargli male. Un pubblico che non ha la maturità evidentemente per cogliere che le sue soluzioni melodiche ed armoniche sono ancora di qualità non più che media. Giostra molto bene gli arrangiamenti, Jaar, ed ha una maturità pazzesca nel gestire gli equilibri ritmici e dinamici – in questo è già davvero numero uno. Ma il genio vero non si è ancora manifestato, signore e signori, rinfoderate gli elogi estatici. Le potenzialità le ha, ma per ora solo le potenzialità.
Meglio i cari, vecchi, prevedibili Cinematic Orchestra di Jason Swinscoe (che, guarda un pò, hanno portato all’Auditorium più gente di Jaar: ed è giusto così), portano in giro lo stesso concerto da anni ma è sempre un bel sentire, rodatissimi. Meglio perfino l’artigianato sperimentale di Pierre Bastien (che non a caso ha rapito il cuore di Jaar – Nicolas lo ha voluto sul palco con sé per il bis finale).
Ma meglio di tutto e tutti, anche degli altri act del festival tipo di un Trevor Jackson che un po’ ha deluso, è stato osservare il pubblico: una combinazione di clubber esperti ed intelligenti e di gente della zona che è incuriosita da questa cosa strana che è un festival di musica elettronica paracadutato dal nulla a Foligno ma che, dopo un pò di anni, comincia a masticare con proprietà di elettronica di qualità, e sottolineiamo qualità. Non ci sono le truppe cammellate da serata techno o house italiana coi “soliti” nomi, e sinceramente non ne abbiamo sentito minimamente la mancanza; ma non ci sono state nemmeno le scene in cui si ritrovano i soliti cento, centoventi espertoni che guardano con disprezzo a tutto ciò che ai loro occhi è commerciale (il 99% della musica che c’è in giro) e si fanno, come diceva Mr. Wolfe in “Pulp Fiction”, i complimenti a vicenda. Perché alla fine nei due giorni folignesi abbiamo visto passare un numero di persone che, a occhio, sta tra i tremila e i quattromila. Insomma, avete capito: non lamentatevi, non lamentiamoci, o almeno non facciamo solo questo. Si può fare. Eccome.