I Coldplay scoprirono di essere arrivati al numero uno della classifica inglese – il primo numero uno della loro carriera – a Villafranca, in un pomeriggio di luglio, giusto un attimo prima di salire sul palco e inaugurare la prima e ultima edizione di un festival di cui ormai ci si ricorda solo a causa loro.
Lo so che messo giù così potrebbe apparire un aneddoto inutile e poco interessante, ma se ci fate caso è una perfetta spiegazione di come la carriera di questo gruppo sia sempre stata segnata da un certo understatement di fondo. Understatement che mal si addice al mestiere di rockstar, ma che spiega bene perché i Coldplay siano diventati, numeri alla mano, la più grande arena band del decennio in cui il rock ha smesso di essere cultura giovanile dominante per diventare altro.
D’altronde basta fare un salto all’indietro, ai tempi di Bigger Stronger, il primo videoclip del gruppo, per capire che loro non erano proprio dressed for success: la classica college band che si ritrova seduta al tavolo dei grandi senza neanche avere il tempo di capire bene perché.
Fatto sta che “Parachutes” esce nella tarda primavera del 2000, vivacchia e poi di colpo fa il botto, i Coldplay diventano il nome nuovo su cui scommettere convinti che si passerà di certo a riscuotere alla cassa e quando poco più di un anno dopo arriva il capitolo numero due – “A Rush of Blood to the Head” – è chiaro a tutti come anche loro abbiano deciso di fare sul serio e intraprendere la caccia al trono non ancora reso vacante dagli U2.
Chris Martin nel frattempo si è tagliato i ricci, ha cominciato a indossare giacche fiche, sposare cause nobili, e scriversi cose sulle mani per compensare l’evidente timidezza e la quasi assoluta assenza di carisma. Si è pure fidanzato con Gwyneth Paltrow, l’attrice, e la cosa fa impazzire tutte le riviste di gossip del pianeta. Perché se la notizia di una nuova coppia formata da una superstar del cinema e una superstar della musica non è proprio una novità, qua si rasenta quasi la perfezione: un inglese di buona famiglia e un’americana di ottima famiglia, tutti e due belli, biondi, bravi e senza vizi conosciuti. Per certi versi è come se Chris Martin si fosse messo con se stesso.
Da quel punto in poi i Coldplay approdano anche sui giornali glamour, sfondano nell’immaginario collettivo e diventano una di quelle band conosciute anche da chi compra al massimo un disco l’anno. Non a caso il loro terzo album diventa quasi un’affare di stato: lo spostamento dell’uscita in avanti di qualche mese farà addirittura perdere punti in borsa alle azioni della casa discografica.
Il futuro del rock è in mano loro: “X&Y” viene pubblicato con l’idea di fare piazza pulita, e funziona. Vende subito vagonate di copie, anche se per la prima volta il gioco non sembra più girare a dovere. “Parachutes” e “A Rush of Blood…” erano due dischi riusciti, pieni di belle canzoni e di suggestioni che rendevano i Coldplay qualcosa di diverso rispetto al normale corporate rock. Qui invece è tutto volutamente troppo “grosso”, ridondante quasi, e la scrittura comincia a mostrare più di qualche cedimento. Però c’è Fix You, e insomma, uno può anche non avere confidenza con certe sonorità, ma lo capisce anche un bambino che un pezzo così lo scrivi solo se hai il dono e loro quel dono sembrano averlo.
A quel punto diventa chiaro a tutti che si è chiusa una fase e se ne sta per aprire un’altra, che i Coldplay come li abbiamo conosciuti finora non possono più andare avanti e c’è bisogno di un piccolo grande cambio di direzione. La svolta è l’incontro con Brian Eno, che forse non sarà proprio il nome giusto per affrancarsi dalla maledetta ombra degli U2 ma che sembra perfetto per aiutare la band a cambiare suono e diventare a tutti gli effetti una “cosa grossa”. Anzi: LA cosa grossa.
Col senno di poi è facile pensare a Viva la Vida – il singolo – come a un goal a porta vuota, ma non era scritto da nessuna parte che un brano per solo voce, archi, e percussioni diventasse l’archetipo di un certo tipo di produzione. Basta guardare solo all’Italia, a casa nostra, per capire come quel tipo di suono à la Coldplay sia diventato un vero e proprio marchio di fabbrica. L’elenco è lungo e infinito, e non vale neanche la pena di citare tutti quelli che hanno reso cliché quello che in teoria doveva essere tutt’altro; fatto sta che Chris Martin e compari – anche rubando un po’ furbescamente qua e là (chi sta pensando: “Arcade Fire”?) – riescono in un colpo solo a rivitalizzare la loro carriera, cambiare completamente campo da gioco e seminare ovunque una miriade di imitazioni mal riuscite.
Non a caso, “Mylo Xyloto”, l’album del 2011, arriva accompagnato da una serie di dichiarazioni che hanno tutte il compito di affermare il distacco definitivo tra i Coldplay e il mondo da cui provengono. Il college rock, l’indie di matrice Brit e gli U2 ora non c’entrano più nulla.
I Coldplay sono pop e si confrontano col pop: con Rihanna (ospite in un brano), con Lady Gaga e compagnia bella. “La musica che ascoltano i miei figli e i loro coetanei”, per dirla con le parole del loro frontman. Anche in questo caso il successo è incredibile, e il tour che segue il disco, per l’ennesima volta, porta i Coldplay a riempire gli stadi di tutto il mondo.
“Ghost Stories” è faccenda di oggi e si muove nel solco scavato dall’album precedente pur cercando di spostarsi in mille direzioni opposte, tutte insieme.
Ci sono una valanga di produttori coinvolti, proprio come accade per i dischi delle superstar: c’è Avicii che serve a coprire la quota EDM e Jon Hopkins, anche remixato da Moroder, per accontentare gli alternativi (in un pezzo che sembra preso di peso dal catalogo di Bon Iver). Ci sono i classici Coldplay da classifica (quelli di Magic, per esempio, il primo vero singolo estratto) e quelli più intimisti dell’esordio, in un tentativo neanche troppo velato di stare costantemente “in mezzo” alle cose. Come se voler parlare a tutti, cercare di piacere tanto all’ascoltatore distratto quanto a quello più raffinato, fosse quasi un obbligo. Come se non esistesse nessuna altra via percorribile.
C’è l’inseguimento costante di un’idea di bellezza che bada tantissimo alla forma e pochissimo alla sostanza. I Coldplay sono a modo loro perfetti, ma di una perfezione quasi respingente, fredda, scientifica, melodicamente impeccabile ma mai davvero avvincente.
Nella loro musica manca completamente il rischio, non c’è scoperta e neanche quel pizzico di pericolosità che serve per accendere la scintilla, e badate bene non siamo tra quelli che inseguono a tutti i costi il mito tutto genio e sregolatezza della rockstar, tutt’altro. Il punto è che i Coldplay non riescono neanche a essere algidi, semplicemente non scelgono mai da che parte stare.
Fanno musica che potrebbe andare bene sia alla mamma di Chris Martin che ai suoi figli pre-adolescenti e, per carità, non c’è niente di male in questo, se non la consapevolezza che certa stampa ci racconterà questo disco come il diario dolente, a nervi scoperti, di una separazione quando in realtà trasmette lo stesso calore di una scena di sesso all’interno di una puntata di una fiction RAI.
E ok, i suoni sono bellissimi, non c’è niente davvero che non vada (così come non c’è niente davvero che vada), ma alla fine resterà solamente il fatto che “Ghost Stories” sia uscito dopo che la storia d’amore tra Gwyneth e Chris era arrivata al capolinea.
Nel frattempo continueranno a frantumare record, riempire gli stadi e a rappresentare alla perfezione il decennio in cui possedere un bel contenitore, anche se vuoto, è diventato più importante del contenuto stesso.