Un’umanità fantastica, caldissima. Esattamente come la sua musica, del resto. Byron The Aquarius è uno di quei personaggi che dobbiamo tenerci stretti: il suo amore per la musica è davvero travolgente. Così travolgente da averlo portato a “travolgere” luoghi comuni, snobismi, steccati: tastierista di formazione classica e jazz, non si è fatto il minimo problema ad innamorarsi dell’hip hop e della musica elettronica. O anche: afroamericano, residente ad Atlanta (con una parentesi significativa a Detroit, come ci racconta), si è fatto conoscere nel mondo “nostro” collaborando nel 2007 con quello che all’epoca era un anonimo ragazzino francese di origini vietnamite, Onra. Il mondo di Byron non ha confini. Lo sanno bene quelli di Dimensions, la crew di uno dei festival che amiamo di più: l’anno scorso lo hanno chiamato a suonare e quest’anno, nell’inaugurare la neonata Dimensions Recordings che proprio oggi 14 luglio 2017 nasce con la release di “Dimensions Recordings: An Introduction”, hanno assolutamente voluto del materiale suo.
Partiamo dalle origini: come sei entrato a contatto con la musica?
Tutto merito di mio nonno. Veterano del Vietnam, già a tre anni mi faceva ascoltare un sacco di musica e a cinque mi faceva prendere lezioni di pianoforte, dopo essermi comprato una tastiera Casio. E’ stato lui a vedere la musica che piano piano cresceva in me, con gli studi sia di classica che di jazz che andavano a costruire, progressivamente, quello che sono oggi come musicista. Gli sono davvero grato. Grazie a questo amore per la musica che mi ha donato, sono stato ben lontano da quel posto complicato che sono le strade, la vita da strada, capisci che intendo…
Quando ti sei reso conto che la musica sarebbe diventata una parte fondamentale, anzi, decisiva della tua vita?
Quando mi sono imbattuto in uno dei producer del team di Dr. Dre, Denaun Porter. E’ stato lui a chiedermi di venire a Detroit, è stato lui a farmi entrare nel suo team mentre stava lavorando ai dischi di Eminem, Alchemist, Royce Da 5’9”. Vedere che uno come lui mostrava grande apprezzamento per la mia musica, beh, mi ha fatto pensare che forse qualcosa di buono stavo facendo, forse c’era del talento in me. Detroit è stata una esperienza incredibile per me: la città della Motown, ma anche quella di techno e house, così come quella di J Dilla… è qualcosa che respiri… ed è qualcosa che mi ha fatto capire che sì, sono stato messo al mondo per fare il musicista ed è esattamente quello che farò fino alla fine dei miei giorni.
Quali sono i primi generi musicali a cui ti sei approcciato?
Un terzetto: jazz, musica classica, hip hop.
E quali erano i tuoi dischi preferiti da adolescente?
Mmmh, “Fantastic Vol. 2” degli Slum Village, “Midnight Marauders” degli A Tribe Called Quest e “Head Hunters” di Herbie Hancock.
Non ci sono dischi techno o house, in questo elenco. Non sono sorpreso: sono generi musicali che negli Stati Uniti hanno sempre avuto vita difficile… raramente finiscono negli ascolti di un ragazzo. Non sono, come dire?, “popolari”.
Verissimo. Ed è una cosa veramente triste. E’ tristissimo che negli Stati Uniti non si sia in grado di dare ai producer di Chicago o Detroit il credito che meritano. Hanno portato la cultura musicale afroamericana a nuovi livelli: è paradossale però che questa cosa sia più apprezzata in Europa che in America. Ma se ci pensi bene, nulla di nuovo sotto il cielo: è successo esattamente lo stesso col jazz, assurda ‘sta cosa… e guarda, non farmi dire altro! Preferisco raccontarti come io sono entrato in contatto coi mondi techno e house. Tutto merito di Kai Alce. E’ stato lui a farmi scoprire il mondo di Detroit, a creare una connessione tra me e Carl Craig, ad introdurmi a quella galassia che va da Theo Parrish a Kyle Hall (lui vive ad Atlanta, come me, ma di nascita è detroitiano). Mi ha cambiato la vita. Oggi non sarei qui a parlarti, starei probabilmente facendo tutt’altro – non fosse stato per lui. Gli devo un rispetto e una gratitudine enormi.
Ma senti, visto che sei uno strumentista di livello, dal background tra jazz e classica: dimmi onestamente, ti è mai capitato di pensare riguardo all’elettronica di matrice dance “Vabbé, ma ‘sta cosa non è musica, è giusto girare delle manopole e manovrare dei cursori”? Almeno all’inizio, su… confessa…
Diavolo, no! Non ho mai pensato una cazzata del genere! Io rispetto tutta la musica. E’ sempre un frutto della creatività umana. E’ stupido stare lì a discutere su come viene creata e dove viene veicolata, quello che conta è che sia arte, che sappia far provare emozioni vere.
Come diavolo siete entrati in contatto tu ed Onra? E’ una delle tue prime collaborazioni importanti in campo elettronico ma, insomma, un produttore francese di origine vietnamita e un afroamericano di Atlanta… non è proprio il match più immediato a cui mi viene da pensare.
Beh, io e Onra ci siamo conosciuti tramite MySpace… oddio, ho detto Myspace! (ride, NdI) Guarda, mi mancano quegli anni. Perché sì, io e Onra ci siamo conosciuto proprio MySpace: a me piaceva la sua musica, a lui la mia, siamo entrati in contatto, abbiamo scoperto di avere un sacco di gusti in comune, un sacco di influenze di base uguali (l’hip hop, Dilla, il suono di Detroit…). Ma sai qual è la cosa più assurda? Ci siamo conosciuti di persona solo un anno fa. Esatto: un anno fa. Perché quando abbiamo creato musica assieme, beh, facevamo tutto via internet. Mai incontrati di persona. E comunque: massimo rispetto per Onra! Siamo come fratelli! Lo adoro, sa essere un fantastico figlio di puttana… (ride, NdI) Viva Parigi!
Ti è mai venuta però la tentazione di “guidare” la tua carriera verso il ruolo di uno quegli affidabili producer hip hop, quelli che appunto stanno in team al soldo di rapper di successo. E’ un ruolo molto diffuso, tra i producer americani. Sarebbe stata comprensibile come scelta: più sicurezza economica immediata, più stabilità, meno rischi…
Ma manco per sogno. La tua vita è bella solo se fai quello che ti senti dal cuore, tutto il resto sono cazzate. Almeno per me è così. Mai, mai e poi mai ho fatto musica “su commissione”, come se fossi un impiegato dell’arte. Mai. Ricordatevi: da Byron The Aquarius avrete solo autenticità al 100%.
Ma oggi come definiresti la cultura hip hop?
L’hip hop continua ad essere per me una meravigliosa cultura afroamericana, che ti insegna a vivere per l’arte con amore e passione e che ti spinge sempre a dare indietro alla tua comunità quello che la comunità ti dà. Questo è l’hip hop per me, e sempre questo sarà. Pace, armonia e gioia, amico mio.
Mmmmmh è così per tutti, oggi?
Beh, diciamo che hai gli occhi per vedere anche tu. Ok, c’è gente che si sta svendendo, ma per me le radici della cultura hip hop ci sono ancora, sono ancora in giro. Qualcuno le sta piegando? Ok. Ci sta. Succede. E’ la vita. Non possiamo pretendere che tutto resti uguale, e tutto resti esattamente come lo vogliamo noi. La vita è un cambiamento continuo e, al di là di questo, la vita è anche una questione di yin e di yang, senza il positivo non può esistere il negativo, e viceversa.
Ok, chiaro. Cambiando argomento, quali sono i producer che più ti hanno “sfidato”, più ti hanno messo a dura prova?
Oh no amico, nessuna sfida. Chi suona con me, è sempre al mio livello, tutti siamo al livello di tutti, tutti stiamo facendo musica per darci una mano a vicenda e per farci stare bene a vicenda. Nessuna sfida. Anche perché ricorda: le questioni di ego non portano da nessuna parte, nessuna! Io faccio cose solo con chi arriva con vibrazioni positive – e ha gusti musicali che mi piacciono. Io adoro incontrare gente, adoro scambiare idee ed esperienze. La via migliore sta nel networking, nella condivisione, è così che si cresce – sia tutti insieme, sia singolarmente come persona.
E stiamo crescendo? Qual è lo stato di salute della musica, oggi?
C’è di tutto. C’è del buono, c’è del pessimo. Devi andarti a cercare le cose belle, ecco. Non è che ti piovono addosso. Ed è super questa cosa, se ci pensi: sta a te, sei tu artefice dei tuoi gusti e dei tuoi ascolti. Sei tu che puoi costruirti il tuo mondo musicale – oggi ne hai i mezzi come mai prima, quindi sta a te, non hai scuse, sei artefice del tuo destino. E come musicista, oggi è molto più facile rispetto ad un tempo restare liberi ed indipendenti.
Che tipo è Theo Parrish? Tu lo conosci bene… Credo che non sempre sia semplicissimo averci a che fare, pur essendo lui – quando vuole – un vulcano di simpatia.
Ho una cosa molto semplice da dire su Theo: con lui è sempre tutto autentico. Amo questa cosa. Abbiamo maledettamente bisogno di persone come lui. Ne abbiamo bisogno, perché è così che ci si contrappone alla musica massificata, è così che sai che devi sempre muovere il culo per dare il meglio di te stesso e per non perdere mai la tua indipendenza e la tua autenticità. Theo è un grande.
Prossimi piani per il futuro?
Aprire una label. Diffondere la mia musica il più possibile, anche con l’aiuto di una label super come la Eglo che farà uscire a fine luglio un mio nuovo lavoro. Fidatevi: il meglio deve ancora venire.
E il tuo rapporto con la crew di Dimensions?
Oh, fantastico! Sono stato l’anno scorso al festival e accidenti quanto sono stato bene. Al di là del fatto di averci suonato, ogni singolo set che ho visto è stato fantastico – quando mai ti capita oggi una cosa del genere in un festival? Poi: gente simpatica, un posto bellissimo, sole, spiagge… Guarda, mi secca non poterci suonare anche quest’anno, è che sono già impegnato col Dekmantel. Però davvero: amore per tutta la crew di Dimensions, Andy Lemay poi è davvero un fratello…