Io me lo ricordo il 15 marzo del 1999.
Me lo ricordo bene.
Era una data che avevo segnato sul calendario (in realtà non ho mai avuto un calendario su cui segnare cose prima dell’avvento dell’iPhone, ma all’epoca ero giovane, sveglio e sembrava che nella mia testa ci fosse spazio per tutto) e che avevo atteso per lungo tempo: la data in cui sarebbe uscito il nuovo disco dei Blur.
Erano anni strani quelli. Anni di passaggio: Internet c’era e c’erano già pure i trick per scaricare la musica gratuitamente, ma era una cosa ancora per pochissimi. Tempo pochi mesi e Napster sarebbe stata la parola più discussa, cercata e utilizzata sulla rete.
Pochi mesi e l’industria discografica sarebbe franata per per sempre.
Ma il 15 marzo del 1999 l’unico modo per ascoltare un disco era ancora quello di attendere il giorno di uscita e andare a comprarlo nel negozio di dischi più vicino a casa. Che “13“, scritto proprio così, a numero, sarebbe uscito proprio quel giorno era una cosa nota da tempo immemore: all’epoca ancora i dischi venivano annunciati molti mesi prima, il concetto di uscita a sorpresa non esisteva e i singoli erano ancora “singoli”, cioè un viatico che conduceva alla scoperta di un album.
Di “13”, addirittura, si comincia a parlare sui giornali prima ancora che il gruppo entra per la prima volta in sala di registrazione per via del cambio in cabina di regia: non più Stephen Street (più che un produttore, un membro aggiunto della band), ma William Orbit. All’epoca farsi produrre da Orbit, fresco del lavoro su “Ray of Light” di Madonna e lanciatissimo, non voleva solo dire lavorare con il tizio più figo e chiacchierato del momento, ma anche aprirsi in maniera decisa a suoni diversi, più. vicini a quelli dell’elettronica. Orbit arriva dal mondo della club culture, e oltre alla carriera di produttore per altri ne ha anche una, con il suo nome, in ambito trance.
Cosa c’entrava uno così con i Blur?
Ma soprattutto, che disco volevano fare i Blur con uno così?
Fino all’uscita di “Tender“, il primo singolo ufficiale, l’unica anticipazione era stata una traccia inedita suonata in qualche festival estivo nel 1998.
Una strumentale che aveva stupito il pubblico proprio per quanto non c’entrasse nulla con quello che il gruppo aveva fatto fino a quel momento e che aveva addirittura fatto pensare a una possibile svolta post rock in corso.
D’altronde anche nella penisola britannica sono gli anni dell’esplosione proprio di quel tipo di sonorità. I Mogwai hanno da poco conquistato tutti con “Young Team” e sembra esserci in atto una sorta di rincorsa ad avvicinarsi il più possibile a quel sound.
O almeno questo è quello che pensano proprio gli stessi Mogwai, che dopo avere condiviso qualche palco e backstage non proprio amichevole con i Blur durante la stessa estate del 1998 se ne escono con una t-shirt destinata a entrare nella storia:
I Blur più che altro STANNO nella merda. Sia come esseri umani, tutti e quattro più o meno alle prese con dipendenze varie e problemi relazionali, sia come entità: devono fare il nuovo disco, non possono rimandarlo, ma forse vorrebbero dedicarsi ad altre cose, o stare il più lontano possibile gli uni dagli altri. La scelta di Orbit arriva proprio per fare fronte a questa piccola grande crisi che stanno vivendo: “Solo qualcuno che non ci conosceva bene poteva farci riuscire a fare un disco in quelle condizioni”, ha raccontato poi in seguito Damon Albarn. Qualcuno che fosse impermeabile alle tensioni e che avesse un punto di vista talmente tanto lontano dal loro da poter diventare, proprio grazie alla diversità di vedute, una sorta di ago della bilancia. Quello a cui appaltare le decisioni delicate.
Con “Blur”, l’omonimo del 1997, si sono definitivamente allontanati dal Britpop e non hanno nessuna voglia di tornare indietro. Semmai la spaccatura, dal punto di vinta artistico, avviene perché da una parte Graham Coxon vuole continuare a guardare verso gli Stati Uniti dell’indie rock, mentre Damon Albarn spinge per una direzione meno punk e più sperimentale, ma anche meno inquadrata e più confusa.
Quell’album però, forse più di ogni altro disco dei Blur (“Think Tank” a parte, ma a quel punto non erano già più una band), sarebbe stato il disco di Damon Albarn e questo era chiaro a tutti. Troppo personali i testi delle canzoni che aveva scritto, troppo personale la storia che voleva raccontare e troppo personale anche l’inferno, un inferno da cui pensava di tirarsi fuori a colpi di eroina, che stava vivendo.
“13” è il racconto in musica di una crisi. La crisi della band, ma pure quella del rapporto tra lo stesso Albarn e Justine Frischmann, la leader delle Elastica, sua fidanzata storica e perno di un rapporto tanto solido quanto mediatico (la versione indie pop di David Beckham e Posh Spice, per dirla con le parole della stampa inglese).
Chi ha assistito alle session di registrazione dell’album parla di atmosfera impossibile.
Liti continue, gente ubriaca o fatta che si urla in faccia di tutto e che non riesce a resistere insieme nella stessa stanza per neanche un’ora.
Per portarlo al termine l’unica soluzione è fare in modo che i membri dei Blur si incontrino tra di loro il meno possibile, con Orbit che da produttore diventa più che altro uno psicologo. Un confessore. Uno che passa ore a sentire tizi che si parlano alle spalle e che si stanno sul cazzo.
Tutta questa tensione, tutta questa difficoltà, finirà proprio per caratterizzare l’intero lavoro fino a diventarne la cifra stilistica.
Una confusione che diventa gigante il giorno in cui il primo singolo debutta in radio. Parliamo di “Tender“, appunto, un gospel molto classico e interamente suonato, per niente “elettronico” e per niente da ballare.
Un piccolo grande capolavoro. Forse uno dei picchi più alti della loro intera carriera.
Un blues all’amore perduto che sul finale diventa un grido disperato che spiazza e crea ancora più incertezza. La stampa inglese si divide tra chi grida al miracolo e chi accusa i Blur di essere saliti in corsa sul carro degli Spiritualized, che giusto due anni prima avevano conquistato tutti con “Ladies & Gentlemen We Are Floating in Space“. Quello che conta davvero è che “Tender” è una canzone perfetta e un ottimo biglietto da visita.
Gli altri singoli estratti dall’album saranno: “Coffee and TV“, cantata da Coxon, e resa iconica grazie al famoso video del “cartone del latte“, e “No Distance Left To Run” che nonostante abbia avuto meno successo delle due precedenti, è forse la canzone simbolo dell’intero lavoro, quella che si riferisce in maniera più diretta alla fine della relazione tra Damon e Justine. Esaltata anche da un video diretto da Thomas Vinterberg nel pieno del suo periodo Dogma.
L’importanza di “13” non va ricercata solo nei singoli, ma anche nel resto delle composizioni che danno vita all’album: a partire da “Bugman” che all’inizio sembra voler fare il verso a “Song 2” e finisce citando Sun Ra, passando per lo sleakerismo di “Swamp Song“, la spettralità di “1992“, lo scherzo punk di “B.L.U.R.E.M.I“, e i sette minuti e quarantatre secondi di “Battle“, il brano che fece incazzare i Mogwai, una delle vette del disco ma che più che al post rock sembra guardare alla Germania.
“Mellow Song” e “Trailerpark” sembrano essere bonus track dall’album del 1997, ma ancora con elementi kraut rock (nella coda della prima) ed elementi ritmici figli diretti dell’hip hop (la seconda), “Caramel” che sta a Damon Albarn come “Heroin” sta a Lou Reed (o “Beetlebum” sempre a Damon Albarn), altro capolavoro, mai eseguito dal vivo fino al 2012, e pure qui l’influenza più evidente sembra essere quella dei Can (oltre che quella degli oppiacei, ovviamente). Altro brano riuscitissimo (e diventato col tempo una sorta di hit minore del quartetto) è “Trimm Trabb,” mentre la chiusura è affidata a “Optigan I“, strumentale che sembra quasi la sigla di fine trasmissioni di una radio presente in una stazione spaziale. La tanto strombazzata elettronica corrisponde in realtà a una forte vena sperimentale, libera, con la scrittura di Albarn che per la prima volta si allontana dalla forma canzone classica e prova ad andare verso altri lidi.
Il Damon Albarn che conosciamo adesso, praticamente, comincia qui.
“13” viene presentato dal vivo negli studi della BBC al Golders Green Hyppodrome e mandato in onda in contemporanea anche in Italia, su Radio 2, durante la trasmissione Suoni e Ultrasuoni.
La copertina del disco è in realtà una porzione di un quadro realizzato da Graham Coxon, cosa quasi surreale se si pensa che è proprio con questo album che le cose per i Blur si fanno irrecuperabili e lo stesso Coxon verrà praticamente messo alla porta poco dopo.
Chi ha visto dal vivo qualcuno di quei concerti si ricorderà sicuramente il modo in cui i Blur erano disposti sul palco: a cerchio, uno di fronte all’altro, tutti più o meno costretti a guardarsi in faccia mentre suonavano. All’epoca la cosa venne vista come una dimostrazione di coesione, ed effettivamente vederli così vicini e disposti sui grandi palchi faceva un certo effetto. In realtà si stavano suonando contro e il live era l’unico momento in cui riuscivano a diventare un organismo funzionante e ad avere ancora una senso. Ma non ne potevano più: Coxon distrutto dai suoi problemi con l’alcolismo, Alex James devastato dalla cocaina e Dave Rowntree dagli altri tre.
Paradossalmente quello che se la stava passando meglio all’epoca era Albarn, che si era appena trasferito a vivere con Jamie Hewlett e che insieme a lui stava cominciando a lavorare su uno strano progetto: una band che non era proprio una band, ma più un cartone animato di una band.
Ci sono però ancora alcuni impegni da onorare: a fine del 1999 viene annunciata l’uscita di un best of, quello con l’iconica copertina in stile Warhol contente un inedito rimasto fuori proprio da “13”, “Music Is My Radar“.
La cosa viene celebrata con un concerto alla Wembley Arena in cui suonano tutti i loro singoli dal primo all’ultimo. Scazzatissimi. Senza voglia. Finiti.
Ormai ci siamo, il 2000 è arrivato è uscito “KID A”, tutti lodano il coraggio dei Radiohead e la loro attitudine al cambiamento e quasi si dimenticano che i Blur lo avevano fatto prima. E lo avevano fatto benissimo.