“Is electronic music on the brink of its grunge moment?”: in un articolo su The Verge, Jamieson Cox provava a delineare alcuni tratti caratteristici comuni agli esperimenti elettronici degli ultimi mesi da un lato e a quel fenomeno di rifiuto del grande mercato mainstream che ha avuto come protagonisti Kurt Cobain e compagni dall’altro: se questi ultimi hanno voltato le spalle al crescente pubblico del metal e del rock più tradizionale e popolare così com’era inteso all’epoca, il fronte digitale di cui vogliamo parlare in questa analisi si dissocia nettamente dalla popolarità di una certa EDM. A spingere tali forme di distacco sarebbe la simpatia, comune ad entrambi, nei confronti di ciò che comunemente vive ai margini della società (e, traslando l’idea, ai margini della ribalta); a questo proposito lo stesso Cobain diceva: “If you’re racist, homophobic, or sexist, don’t listen to our music”.
La tesi di Cox potrebbe venir confermata da un’effettiva analogia anche nel risultato artistico, in entrambi i casi (almeno in un primo momento) percepito dai più come un insieme di cacofonie, comunque come qualcosa di “sgradevole”. E’ indubbio che artisti come Lotic, M.E.S.H. o Rabit non abbiano confezionato prodotti adatti al grande pubblico; vien da pensare che esista del diletto nel tentativo di graffiare i timpani di chi ascolta, di metterlo a disagio proponendo qualcosa di “difficile” comprensione. Si tratta di nomi che se da un lato non pretendono la ribalta, dall’altro esigono livelli di attenzione sempre massimi: non è elettronica da sottofondo, né tantomeno da ballo. Si può dunque immaginare che sia musica fatta anche per veicolare un messaggio, o per rappresentare un’idea (…oltre che per dare uno sfogo virtuoso a determinate abilità personali): sulla base di questa sensazione può essere divertente giocare ad incastrare nel quadro creato dai lavori dei suddetti geniali “rumoristi” una parziale, ma forse efficace, analisi dell’oggi.
Se l’epoca a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 veniva definita postindustriale, ed è lì che Jean-François Lyotard ha formulato la teoria della post-modernità (La condizione postmoderna – 1979), questi in cui viviamo sono potenzialmente gli anni post-internet. Volendo, una post-modernità 2.0, basata comunque sugli stessi principi dedotti dalla domanda originale dello studioso francese: “La scrittura, la pittura, il buon cinema, insomma gli oggetti della nostra creatività, si può dire che sono prodotti dal sistema?”. Ora più di prima è evidente che le creazioni contemporanee sono pensate per un uso e un consumo più che immediati; a volte rimangono addirittura virtuali, quindi massimamente effimeri e senza nessuna apparente pretesa “fisica” di durare nel tempo.
Non sembra un caso, allora, che uno dei dischi più in vista dell’anno, quello di Sophie, si chiami “Product”; né che, realizzato in edizione limitata, sia stato impacchettato con una specie di sexy toy; oppure che vanti quel costante senso di ironia e leggerezza che ha caratterizzato, ad esempio, buona parte dell’architettura postmoderna (si veda la Piazza d’Italia di Charles Moore a New Orleans, del 1978). E si capisce anche come Sophie (l’autore) faccia parte di un collettivo in cui si inserisce, tra gli altri, una QT che è performer e prodotto al tempo stesso (nello specifico: un energy drink, ovvero un prodotto che dura il tempo di qualche sorso). Il nome stesso del collettivo, PC Music, sembra calzare a pennello relativamente all’arte di consumo istantaneo tipica dell’era digitale.
Data ormai per certa la fine della modernità, legata com’era a principi razionali assoluti che mal si legano a ciò che si sta prospettando per il futuro (ovvero: da un lato l’incertezza, dall’altro nulla che possa rappresentare l’equivalente odierno della rivoluzione illuminista), la visione postmoderna non è però certamente l’unica possibile. Si prenda ad esempio l’idea di “altermodernismo”, idea che ad oggi non è andata molto oltre la Tate Triennial del 2009 (occasione in cui il curatore Nicolas Bourriaud ha coniato il termine) ma che può comunque inserirsi opportunamente in questo discorso. Alla base dell’idea “altermoderna”, ovvero alternativa al moderno, c’è l’espansione del raggio di azione della cultura a cui fa riferimento: se la modernità è nata e si è sviluppata nella società occidentale, e il fenomeno postmoderno aveva origini e aspirazioni multiculturali, la lingua altermoderna è direttamente globale. Qual è, dunque, il luogo per eccellenza in cui potersi esprimere in un linguaggio valido per tutti? Internet.
La differenza con la post-modernità 2.0 definita prima è sostanziale: al centro non c’è più il prodotto (o la sua parodia), bensì l’attività (o la sua rappresentazione) che può essere svolta in un contesto, appunto, globale. Platform è la piattaforma su cui tutto ciò accade: è il luogo dello scambio, della comunicazione, della collaborazione e, perché no, della resistenza politica; Holly Herndon, con la sua ultima release, ci regala un pezzo d’arte costruito a partire da quello che avviene sulla piattaforma in questione, registrandolo e manipolandolo in maniera tanto cerebrale quanto da pelle d’oca.
Si capisce che le definizioni che si stanno arbitrariamente susseguendo in questa riflessione sono caratterizzate da contorni quantomeno sfumati, se non addirittura evanescenti: si tratta di idee che si intersecano in una molteplicità di aspetti, che hanno un’infinità di punti in comune e che vanno testate sul tempo ma che, al tempo stesso, possono comunque aiutare a dare un senso più o meno logico ad alcune tra le cose più interessanti che abbiamo ascoltato quest’anno.
Il prodotto così come raccontato da Sophie e la piattaforma cui allude la Herndon fanno entrambi riferimento alla dematerializzazione delle cose umane, le quali trovano una rappresentazione più soddisfacente nella realtà virtuale che negli oggetti concreti. La realtà virtuale rappresenta, oggi, buona parte di ciò che siamo. Si pensi a quel che ha fatto Arca con Xen, “a girl character for an online role playing game”, diventato il suo alter ego svincolato da ogni genere ma che lui stesso chiama “lei”, e che sembrerebbe coincidere con la parte più profonda dell’animo dell’artista. Potrebbe essere questo il messaggio del primo vero album di Arca: l’essere umano è talmente sfaccettato e complesso che una sola forma non basta a rappresentarlo; in tal caso, quello che ci propone il suo amico/coinquilino/collaboratore Jesse Kanda non farebbe altro che girare attorno a questo assunto.
È facile, nel mondo virtuale, essere più cose contemporaneamente, ma nella vita la questione è più complessa: è qui che il venezuelano Alejandro Ghersi trova un nuovo campo d’azione, quello dell’indeterminatezza, di improvvisazione, di metamorfismi, di immaginarie zone di passaggio tra due poli opposti in cui questi tuttavia coesistono. Queste zone grigie sono i nuovi non-luoghi, ovvero una trasposizione contemporanea di quelli che Marc Augé contrapponeva ai luoghi antropologici e che, per Arca, conducono alla parte più malleabile della mente umana, la meno sondata e, quindi, la più ricettiva. Viene subito spontaneo parlare di supermodernismo, definito dallo stesso Augé mediante la figura dell’eccesso: eccesso di tempo, di spazio ma soprattutto di ego. Eccesso, allora, è lo strabordante organismo lontanamente umanoide raffigurato sulla copertina di “Mutant”, che dipinge un’ esplosione dell’ego tale da mutare la natura umana per farla scivolare liberamente tra stati psichici e fisici opposti.
Questo tipo di fluidità mentale e sessuale la si ritrova in molti altri protagonisti del 2015, come Lotic, Rabit, Elysia Crampton o lo stesso Sophie, ma l’immaginario che ci ha creato sopra Arca può probabilmente dirsi il più memorabile: è insieme maschio bianco, diva latina e creatura del futuro. “If you’re racist, homophobic, or sexist, don’t listen to our music”: si torna a Cobain, al punto di partenza, e ci si chiede se il grunge e la musica di questi stravaganti sperimentatori possano condividere anche l’ironico destino. Chissà se a breve Arca sarà il beniamino di una nutrita schiera di novelli “alternativi” o di giovani “queer”, o se Sophie verrà chiamato a presenziare i più affollati eventi di Ibiza, esattamente come il grunge e l’icona Cobain erano diventati onnipresente nel panorama culturale dei primi anni ’90. Chissà.
È molto probabile che questo stavolta non avverrà; ma possiamo almeno dire di aver ascoltato un’ottima alternativa ai soliti suoni confezionati ad hoc per accaparrarsi il maggior numero di ascolti possibile. Un’alternativa spesso lontana dalla retromania e diretta, più che mai, verso il futuro.