Gli estremi si toccano. In modo qualche volta davvero imprevedibile. E può fare molto strano. Molto, molto strano. Di che stiamo parlando?
Allora, seguiteci: esiste una cosa bellissima nel mondo dell’elettronica, qualcosa di veramente magico e meraviglioso. Si chiama Bangface (ve ne abbiamo parlato un paio di volte su Soundwall), si svolge – quando ci riesce – in Inghilterra. Bene. Un festival fuori dal tempo, fuori dalle mode, fuori dai media (non hanno uffici stampa, non danno accrediti, non pagano viaggi ai giornalisti). Un festival dove la gente arriva con entusiasmo puro, fanciullesco, “aperto”: e lo fanno tutti quelli che ci partecipano da spettatori (ma anche da musicisti), dai più accigliati e quotati esperti che sanno a memoria la discografia di tutta la scena happy hardcore ‘92/’93 (o di quella EBM di un po’ di anni prima) fino a quelli che invece sono lì solo per la caciara e basta – perché la caciara non manca, oh no. Ecco: in realtà noi abbiamo sempre combattuto a favore della crescita professionale degli eventi, del fare le cose per bene, studiare bene la line up, la promozione, imparare dalle migliori case history straniere, alzare il proprio livello di competenza e di fruizione. Ne abbiamo scritto parecchio. Continueremo a farlo. Ma ogni tanto ci sono degli scrigni magici che è bello poter conservare, è bello poter cantare, è bello poter tenere stretti per tutto quello che rappresentano così come sono, con tutte le imperfezioni. Tutta la purezza che hanno in sé.
Ecco. E’ assolutamente imprevedibile, assurdo, sorprendente, scioccante che l’esperienza nella nostra vita che più si sia avvicinata a Bangface l’abbiamo vissuta a Nameless, il primo weeend di giugno: un festival che, insomma, è visto come “Il principale festival italiano dell’EDM”. Ovvero quella musica che, sfruttando meccanismi molto americani, ha fatto a pezzi la storia della musica elettronica dance degli ultimi vent’anni prendendosi solo le fette più grasse e sature e creandoci sopra una macchina del guadagno altamente spettacolare e assolutamente spregiudicata. Una musica che ha trasformato, passo dopo passo: un discreto dj techno underground francese in un manichino tutto mossette e braccia al cielo con la disperata ansia di imbroccare la hit pop; un sapidissimo dj/producer americano semisconosciuto fidanzato di una giovanissima M.I.A. in un manichino palestrato che crea hit dance di cantabile ed impalpabile leggerezza; degli onesti manovali di serie B della scena house svedese in una cricca vanesia dalle mille hit e dal paraculismo marcatissimo. Queste cose le abbiamo sempre scritte, le scriviamo, sempre le scriveremo. Così come dell’EDM – e di molti suoi cantori – non sopporteremo mai e poi mai il voler misurare tutto a numeri (dalle presenze ai festival ai play su YouTube ai fatturati in generale generati…) affidandosi a loro come giudice indiscutibile, un impoverimento culturale di ciò che dovrebbe essere invece analisi critica, impoverimento che continuiamo a trovare molto criticabile e un po’ avvilente. Così come non del tutto positivo è il fatto che in quelle lande la qualità di un set (…dj set? Live set? Pre-recording + throw your hands in the air set?) sia data molto dalle luci, dalla pirotecnica, dal fatto di poter cantare-in-coro. Lo spettacolo son-et-lumière è un’arte nobile, nobilissima, sia chiaro. Ma quando viene messo in atto con l’artiglieria pesante, la musica diventa giocoforza un accessorio e non più la prima protagonista. Sarebbe sempre meglio non abusarne troppo (se si vuole essere giudicati in primis come musicisti, sennò fai quel cazzo che ti pare, ma non ti ingrugnire se gli appassionati di musica ti rampognano e ti trattano qua e là come un fastidioso, chiassoso pària).
Ok. Tutto questo è vero. O meglio, continua a sembrarci tale, dalla nostra prospettiva, perché poi le verità assumono declinazioni soggettive, a meno di non credersi ‘stocazzo in terra. Ma sono vere anche altre cose, parlando di EDM (e non solo). Ovvero, che la musica è prima di tutto una questione di gioia e godimento: nella propria fruizione personale, così come quando diventa esperienza collettiva. Tutto il resto viene dopo. Tutto il resto significa anche capire che ci sono diversi livelli di fruizione, e che se ascolti Afrojack nella stessa maniera in cui ascolti Jeff Mills allora Afrojack ti farò schifo, ma anche se ascolti Jeff Mills nella maniera in cui ascolti Afrojack allora l’alieno di Detroit sarà una discreta rottura di palle. In realtà, puoi stare bene sia con Afrojack – al netto di quando esagera con gli effettacci “facili” – sia con Jeff Mills (quando non si impantana in ondeggi techno dalla dinamica un po’ incerta un po’ cervellotica).
(panoramica della location del festival; continua sotto)
A proposito, una cosa che ci ha colpito durante le nostre chiacchierate targate Molinari #extracontent (le trovate qui a partire dalle prossime settimane) con un sacco di artisti nella line up di Nameless è la frequenza con cui è stata ripetuta la frase “Io la musica la ascolto tutta, l’elettronica l’ascolto tutta”. A esser critici, potrebbe essere descritta come una faciloneria che ti porta alla famigerata notte kantiana in cui tutti i gatti sono grigi; a essere più oggettivi, ci sembra una scelta di campo sincera, per quanto magari “facile”. C’è, nel macrocosmo EDM (che in realtà è molto sfaccettato e non necessariamente Guetta/Garrix/Diplo-related) una “fame” di musica, di adrenalina mista a cantabilità, che porta a sentire stretta, troppo stretta ogni costrizione stilistica eccessiva. Da qui il “L’elettronica l’ascolto tutta”. E’ un fenomeno molto interessante. E’ un fenomeno anche vitale. D’altro canto la musica elettronica dance stessa nasce da una rivoluzione contro una “costrizione”: quella del moloch-rock. La techno detroitiana, l’house di Chicago, l’ondata dei rave inglesi della Summer Of Love sono stati al momento della loro apparizione sulla scena dei “selvaggi” che hanno scandalizzato moltissimi benpensanti della musica. E’ paradossale che ora sia la dance più legata a quegli stili ad entrare nel ruolo del benpensante. O forse è solo il tempo che scorre, il normale evolversi e succedersi delle cose.
(la postazione di regia di NMFTV, il “canale televisivo” via YouTube ufficiale del festival; continua sotto)
E’ bello ad ogni modo approcciarsi ad un altro circuito e un’altra musica – riuniamoli per l’appunto per comodità sotto il marchio EDM, ma la definizione sarebbe un po’ imprecisa e grossolana – con mente fresca. Con la voglia di giocare, e mettersi in gioco. E’ bello mettere alla prova i propri gusti e le proprie certezze. Ti confermi che c’è un motivo se continui a trovare un’insalata sospetta chi si arrampica da una hit all’altra tentando sempre i soliti trucchi nell’arco di tutto il set ed abusando del ritornello cantato; ti confermi che un dj set dove si passa da un brano all’altro nell’arco di novanta secondi o è un fuoco d’artificio imprevedibile pieno di sorprese, o altrimenti diventa una “bulimia d’ascolto” per cui si parte dal presupposto che la soglia d’attenzione della gente di fonte a te è bassa (del resto, il web ci sta abituando a questo) e hai letteralmente bisogno di passare da un brano all’altro nell’arco di un minuto e mezzo o due, sennò ti annoi e annoi. Ma è anche bello scoprire che certe discese negli inferi dell’hardcore allegra e gabberona (ora da quelle parti la si chiama hardstyle, prendendo in prestito una definizione in realtà già coniata in altri tempi), che erano divertenti e cruciali nei primi anni ’90 per poi venire soppiantata dalla compostezza tech-house e dal berlinismo minimale, grazie all’adrenalina fortemente voluta da certi artisti di ‘sto giro siano tornate assolutamente fresche ed attuali. Sì, perché c’è un’attitudine al “Divertiamoci!”, a uno “Smarmella tutto” ultracolorato (tanto per citare Biascica), che nel semimonocolore tech-house di Ibiza/Berlino ancora imperante dalle nostre parti rischia sempre di andare persa (…anche perché troppo sono le persone perse nelle loro stupefacenze, persone che “pretendono” una musica piatta, continua, non troppo invasiva, che faccia da colonna sonora perfetta per lo stato di alterazione del momento – uno stato di alterazione non più escapista e controculturale come agli inizi, ma ormai perfettamente consumista).
Che poi, a Nameless è pure capitato di finire nelle grinfie della tech-house, ebbene sì, e proprio grazie ad uno degli artisti più attesi, Malaa (uno che invece nel mondo tech-house più canonico non si fila nessuno): chiaro, la sua è una tech-huouse molto muscolare, molto anabolizzata, molto EDM-friendly grazie a tutta una serie di sfumature e sottolineature (ma del resto, anche Kölsch fa spesso così); però il set è stato assolutamente bello e convincente, con qualsiasi orecchio lo si sia ascoltato. Il pubblico ha apprezzato da morire. Anche se non c’erano drop ovunque e ritornelli autotunanti.
Ecco. Il pubblico. Il pubblico di Nameless è qualcosa di molto, molto particolare. Con un entusiasmo pazzesco, raro, speciale. Sta lì la contiguità maggiore con Bangface. Non è un pubblico tipo Tomorrowland, generalista e pop ormai al massimo grado, e sempre con l’idea che sia pronto a farsi inquadrare da una telecamera; no, qui è diverso. E’ un pubblico che ha un senso di appartenenza pazzesco col festival, più ancora che con gli artisti. Ragazze e ragazzi sono lì poi non per moda, non per caso o perché hanno distrattamente sentito Axwell e Ingrosso alla radio e allora “Andiamo dai che suonano dal vivo e rifanno di sicuro anche la loro hit…”. No. Si avverte nell’aria un’intensità, un senso di partecipazione, un senso di “famiglia” dal candore e dall’onestà totali e marcati. Nameless, quando si è là e lo si tocca con mano, è l’antitesi del festival “in provetta” costruito solo ed unicamente inseguendo le playlist delle major radiofoniche o le views su YouTube, col pensiero che questo sia il momento e il modo giusto per capitalizzare. E’ un “labour of love” tanto quanto Dancity o Fat Fat Fat, solo applicato su una musica diametralmente opposta: c’è lo stesso senso “artigianale”, la stessa passione, la stessa competenza verso il proprio genere di riferimento sviluppata senza saccenza, senza snobismo, senza complessi di superiorità. A Nameless, se ti vengono a dare i numeri delle presenze, non lo fanno per dirti “Guarda quanto siamo importanti, guarda quanto siamo fighi, hai capito?” ma comunicano un evidente e genuino “Incredibile, è bellissimo, ancora non ci crediamo!”. Non c’è la corsa “americana” business-oriented ad accumulare numeri su numeri, alzando via via il livello del lusso e dello sfarzo spettacolar-tecnologico per aumentare i margini. Su molte cose è ancora felicemente alla buona, il festival, pur facendo dei numeri che per dire superano quelli di Club To Club, tanto per fare l’esempio del più grande e celebrato festival “colto” e “nostro” di musica elettronica (quest’anno a Nameless 30.000 presenze reali, nei tre giorni di svolgimento). E’ molto ruspante. Artigianale. Panche e tavolacci di legno. Il main stage è un gigantesco tendone da sagra. E’ molto, come dire?, “easy”. E lo è anche la gente, appunto. Tra organizzazione e pubblico c’è infatti, per ora, una simbiosi perfetta e uno scambio continuo di energie e attitudini. Soprattutto attitudini. Niente vestiti alla moda, niente raffinatezze, niente messe in piega, niente tacchi, niente pose, ecco, soprattutto niente pose, fatecelo dire, niente donnine ed ometti che sgomitano per essere in console (uno dei grandi mali della scena “nostra”), niente gente che ostenta stereotipato divertimento in favore di Instagram (un male di molte scene, a partire da quella EDM canonica); tutti invece vestiti da battaglia e armati di gran sorriso, focalizzati nel vivere il più intensamente possibile i tre giorni di musica. Qualcuno del pubblico ogni tanto beve una birra di più (altro non abbiamo visto) e barcolla, certo, ma sono pochissimi e l’aggressività sta a zero (tolti i mosh pit che si sono creati nel Main Stage un po’ di volte ma, insomma, so’ ragazzi… e non erano certo risse).
(Afrojack sul palco; continua sotto)
Insomma. L’euforia di plastica un po’ cheap di certe derive deteriori dell’EDM, a Nameless, in tre giorni, non l’abbiamo vista quasi mai. Certo, ci sono cose che non ci sono piaciute e che sono andate abbastanza dritte verso questa deriva, artisticamente ed “idealmente” parlando: le sbandieratrici “alla Major Lazer” di SDJM sono state una poracciata, così come il loro set – oppure anche quello di Angemi – si infilava in modo poco entusiasmante nei territori più smaccatamente dance-pop facili, banali. Degli headliner, solo Afrojack ci ha catturato davvero; su Zedd invece sempre più perplessità (sarebbe bravo, è bravo, ma sta “zuccherando” il suo suono sempre di più) e su Axwell & Ingrosso pure (un set dove sono andati a tentoni in mille direzioni, compresa una partenza insospettabilmente scura e tech-house, ma lo hanno fatto un po’ a caso un po’ con l’affanno del “Se le provo tutte, per la legge dei grandi numeri prima o poi la imbrocco”). Continuiamo? Inguardabile la stellina biondina Amy-Jane Brand (rega’, da vicino ha l’aria di essere tutta rifatta, vi assicuriamo che non è un bel vedere…) e non solo per l’aspetto fisico, che non c’entra nulla con la musica, ma in primis per le mossette in console e il farci lì sopra gran, gran poco, sulla scia di una (pre?) selezione adrenalinica ma anonima; molto discutibile Matoma, che ha pasticciato molto provando a non essere scontatamente tropical house ma fallendo in pieno; così così Alan Walker, un altro dei grandi attesi, che se quando c’è da piazzare la hit radiofonica (avete presente “Faded”?) lavora di cesello, dal vivo cerca invece l’effetto facile da big room senza farsi troppi problemi (ma anche senza inventarsi nulla di troppo nuovo o troppo entusiasmante).
(Amy-Jane Brand sul palco; continua sotto)
Ci sono stati comunque dei momenti oggettivamente validi ed interessanti, se si arriva lì e si ascolta senza pregiudizi, con l’idea di stare bene e divertirsi. In primis Kharfi, che già avevamo visto in apertura a Gold Panda un anno fa a Milano (accostamento bizzarro) e ci aveva lasciati un po’ perplessi per l’attitudine – molto EDM, eh – a cercare solo-grandi-successi pensando di sedurre così il pubblico che era lì per Gold Panda (riuscendoci zero, naturalmente), ma che una volta riportato in contesti “suoi” si è dimostrato dj di notevole personalità e piglio. E’ stato bello vedere come Vini Vici (arrivati dimezzati, ce n’era solo uno) abbiano incontrato grande entusiasmo con la loro trance isrealiana magari “facile” in questo formato dj set (molti “ganci” paraculi-cantabili) ma comunque autentica, rivendicata, celebrata. Interessante anche il lavoro del cinese Chace, un prototipo da tenere d’occhio di “stella non-europea e non-americana della nuova dance di largo consumo” (efficace, preciso, con giusto quel microtocco di esotismo in una musica comunque al 100% occidentale-globale, inglese perfettamente parlato, misurata ma ottima comunicativa fisica col pubblico). Chiassoso, ben poco raffinato ma efficace Valentino Khan. Poco efficace ma molto raffinato l’italiano Not For Us (un caso stranissimo di artista che gravita per ora su circuiti EDM ma con un tocco musicale molto da Four Tet, da Telefon Tel Aviv, da Pantha Du Prince): il suo set è stato una specie di “rara avis” lì in mezzo, giocato com’era sulle sfumature, su momenti di pausa, sulla tranquillità. Praticamente un alieno, per quello che si è succeduto in tre giorni di festival. Forse troppo. Ma il talento c’è, eccome, anche se proprio quando ha provato nel suo set a rimettersi sulla carreggiata dell’adrenalina sono emersi dei limiti.
E poi c’è il vero vincitore di tutto, l’americano Kayzo. Vincitore perché ha sparato un set di una energia spaventosa (praticamente un upgrade dello Skrillex vecchia maniera, quello prima della deriva verso i Daft Punk e/o il dance-pop da classifica) che non ha fatto prigionieri. Vincitore perché ha affrontato il festival talmente da preso bene e da “Io sono uno di voi” che ad un certo punto è stato avvistato fare la fila ad una delle casse dei token, per prendersi poi da mangiare dei frittini sotto un tendone (qualcosa di simile ha fatto anche il russo Shapov: però meno compagnone, e meno bravo on stage). In realtà, a livello di scelta e gusti personali, ci sarebbe un altro vincitore assoluto: Edmmaro. Abbiamo amato il suo set. Ci piace da morire il suo personaggio. Montagne di sense of humour e autoironia sui cliché EDM, il tutto legato da una tecnica inappuntabile. A parte il fatto che riprendere sigle e momenti trash ed inserire tutto in una cornice dance spinta ricorda i momenti eroici della prima esplosione rave anglosassone (avete presente “Charly” dei Prodigy?), in generale il ragazzo ha talento ed intelligenza. E complimenti a Dj Mag Italia per aver messo lui in copertina nel numero quasi monografico dedicato a Nameless, uscito in edicola a ridosso del festival. Scelta non scontata, scelta coraggiosa.
(il secondo palco, quello dedicato a hip hop e trap italiani; continua sotto)
Cosa resta, dopo tre giorni in quella che è teoricamente la “casa del nemico” (e lo è, la “casa del nemico”, visto che l’extra-day dei festival coi Chemical Brothers ha raccolto a malapena un terzo come affluenza rispetto ai tre giorni ufficiali, quindi ecco parliamo proprio di un altro mondo)? Resta che sì, sei orgoglioso di arrivare da una cultura dance dove c’è tempo anche per la pazienza, per la profondità, per la circolarità ipnotica, per il cesello di frequenze e di mixaggi, e anche per il raccontare e ricordare una storia di pionieri e di “beautiful loser” visionari. Sei orgoglioso, continuerai a combattere per queste cause. E sai che sono tutte caratteristiche che in Nameless non si trovano o non sono ritenute necessarie (…men che meno nel palco due, appaltato alla nuova scena rap – o trap – italiana, dove comunque Ghali ha retto bene e gli altri hanno dato esattamente quello che ci si aspettava, davanti a un buon pubblico). Ma resta anche che arrivando in questa location semi-sperduta (il festival si svolge sopra Lecco, a Barzio, nella Valsassina, in mezzo a panorami montani decisamente belli), arrivando in questo festival, torni a respirare qualcosa che è diventato piuttosto raro, negli eventi della club culture canonica, quella che non ha parentele col nuovo ceppo EDM. Una club culture canonica che tende ogni tanto ad essere prevedibile, dove la gente si diverte perché “deve” divertirsi, dove ci sono più luoghi comuni da (finti?) esperti che allegra visceralità, dove ci si veste per uniformi (le magliette slabbrate ibizenche, il nero d’ordinanza berghainiano, le canotte NBA da Social Music City…). A Nameless invece lo stare bene è sincero, non è una ostentazione posticcia. L’entusiasmo della gente è sincero. L’amore o la curiosità per gli artisti sono sinceri, aperti. C’è un senso di comunità d’altri tempi, da primi anni della dance anni ‘90, prima cioè che arrivasse la grande industria e la grande professionalizzazione.
Esattamente gli ingredienti della magia Bangface. Dove in fondo, esattamente come a Nameless, molti set sono fatti solo coi laptop, molti set sono strutturalmente pensati in primis per far impazzire il proprio pubblico e non per essere “opere d’arte” pensate e raffinate. Dove la gente non si pone il problema se è figa, alla moda, vestita bene. Gliene frega zero. Gliene frega così zero che arriva qua e là travestita con costumi scemi, carnascialeschi. Ecco: pure questo, a Nameless u-gua-le. Che ci volesse un festival legato (per ora) a doppio filo con la galassia EDM per farci ripercorrere tutto questo, beh, è molto interessante, paradossale e dovrebbe far riflettere parecchio un bel po’ di persone. Prime fra tutte quelle che, convinte, amano la musica perché la musica è la più bella ricchezza dell’animo, delle emozioni, e non vogliono farsi ingabbiare da (pre)giudizi legati a numeri, stili, mode, coolness assortite – da qualsiasi parte arrivino.
Postilla importante e finale: questo lungo articolo, l’avrete notato, è molto impostato su una dicotomia noi/loro. I campi in effetti sono ancora distinti. Lo accennavamo parlando della affluenza poco più che sufficiente nella giornata contrassegnata dall’esibizione da dj dei Chemical Brothers contrapposta a quella enorme dei giorni successivi; è evidente nel momento in cui siamo sicuri che a molti lettori di Soundwall la line up del Nameless dice poco (e a molti fan di Nameless i nomi in cartellone al Dekmantel strapperebbero un “Eh?“). Insomma, stiamo ancora parlando di due circuiti distinti e separati. Il futuro ci porterà ad una confluenza fra di loro? O ognuno resterà arroccato attorno ai propri possedimenti e alle proprie fortificazioni? Non riusciamo a fare una previsione. Nè vogliamo farla. Ma una cosa ci è chiara: se ci sarà una confluenza, faremo di tutto nel nostro piccolissimo per farla avvenire senza che vengano sacrificati gli aspetti da club culture che più amiamo e più ci sembrano importanti (la conoscenza delle radici storiche, l’importanza di modulare l’emotività di un set senza cercare sempre e solo la soddisfazione istantanea e la scorciatoia pop). Romperemo sempre tanto le scatole su questo. Se invece la confluenza non ci sarà, spiegheremo sempre a tutti che ogni tanto si può benissimo andare a vedere ben disposti e incuriositi cosa succede “dall’altra parte” tentando di capirne etiche ed estetiche senza che questo significhi fare abiura dei propri valori, delle proprie passioni.
E’ così difficile?