“Ma che ne sa Sven Marquardt.”
Il nostro report del Caprices Festival parte da questa frase, colta direttamente fra le quattro mura del Modernity durante uno dei tanti momenti spensierati vissuti negli ultimi quattro giorni. Si tratta, ovviamente, di una provocazione. Eppure ci è sembrata così sfacciatamente sincera da farci venire voglia di riportarla sulle nostre pagine.
Perché? Bè, forse perché la sensazione più nitida che, anno dopo anno, si porta indietro da Crans-Montana (casa madre della manifestazione sin dal giorno zero) prima ancora delle prestazioni singole degli artisti, della bellezza delle location e della praticabilità logistica, è proprio quella di aver passato tanto (ma tanto) tempo a fare semplicemente festa. Senza fronzoli. Di quella che mentre state ballando sotto al Sole insieme ai vostri compagni di sempre, di fronte al vostro dj preferito, guardando la maestosità delle Alpi da 2227 metri di altitudine attraverso delle pareti trasparenti, vi stamperà una meravigliosa e spontanea espressione di gioia sul viso mentre danzate al ritmo della musica che, in un modo nell’altro, ha reso la vostra esistenza in qualche modo migliore.
Festa, dicevamo. E così è stato, nonostante il brutto tempo abbia messo un po’ i bastoni fra le ruote agli organizzatori per gran parte del weekend. Con la sola eccezione della giornata conclusiva, dove uno splendido Sole primaverile ha riportato quel valore aggiunto colossale che è il Modernity ai livelli a cui ci aveva fatto abituare nelle scorse edizioni. Aiutato anche da un’imprevista quanto gradita “doppia” di Sven Vath, chiamato (dopo le tre ore monumentali della notte precedente al Moon) a sostituire l’assente dell’ultimo minuto Guy Gerber, rimasto bloccato in aeroporto. Il prode Sven ha saputo, come suo solito, interagire costantemente con la pista, in un tripudio di ovazioni e buona musica. E tutto sommato gli si può perdonare anche qualche imprecisione tecnica. Problema che, per altro, ha afflitto molti dei set che abbiamo avuto modo di sentire nella parte diurna del festival. A partire dalle quattro ore di back-to-back fra Martinez Brothers e Jamie Jones, che nonostante l’ottimo impatto sulla pista hanno dato la sensazione di fare musica piuttosto piatta e scontata, per finire ad un Ricardo Villalobos lontano parente di quello dello scorso anno che, nelle tre ore di improvvisato back-to-back con Zip, aveva strappato applausi scroscianti. Nonostante la sua borsa si sia dimostrata, ancora una volta, piena di dischi tutt’altro che scontati, stavolta la sensazione è stata quella di essere alle prese con un set che non ha saputo prendere una direzione precisa a favore di un sostanziale “shuffle” di dischi belli e meno belli buttati lì senza una coerenza particolare.
E’ andata tutto sommato bene anche nella parte notturna, il Moon, nella sua nuova sede posta esattamente accanto alla cabinovia Les Violettes, da cui si parte per raggiungere il Modernity. Una scelta che ha reso necessario sacrificare qualcosa in termini di metri quadri ma che ha pagato dal punto di vista logistico in quanto, grazie alla vicinanza con la parte diurna e ad una fornitissima area ristoro, ha permesso ai temerari in grado di farlo di potersi trattenere per tutto l’arco della giornata fino alle prime luci dell’alba senza mai doversi sentire in obbligo di rimbalzare da una parte all’altra di Crans-Montana come era stato nelle edizioni precedenti. Un impianto maestoso e prestazioni di ottimo livello come quelle, fra i tanti, di Maceo Plex e KiNK, hanno fatto il resto. Discorso a parte meriterebbe Sven Vath che, come già detto, si è reso protagonista di un set notturno davvero magnifico in cui, grazie al suo modo unico di coinvolgere la pista e ad una selezione fatta di tante ritmiche techno alternate ad intermezzi deep e progressive, ha tenuto incollato il pubblico alla consolle fino all’ultimo tocco di campana guadagnandosi, secondo il nostro modesto parere, la palma di miglior set della manifestazione.
E proprio il pubblico, festoso, colorato ed educato, è stata una delle vittorie più nette di questo Caprices. Con buona pace di coloro che di questi tempi hanno in bocca solo la Berlino del Berghain, i look total black e le location minimaliste e post-industriali, c’è chi ancora si accontenta di una maglia colorata, un paio di occhiali da sole e qualche accessorio sgargiante senza doversi sentire soggetto alla lente di ingrandimento del door selector di turno o di quella sorta di “intellighenzia” del clubbing che vuole per forza porre una barriera fra il giusto e lo sbagliato basandosi su canoni assolutamente schiavi della moda e del momento storico. Dividendo dove bisognerebbe unire e andando a mortificare quelli che sono i principi fondamentali della club culture.
Questo, sia chiaro, non vuol certo dire che una cosa debba necessariamente escludere l’altra, e ci mancherebbe altro. Ma se avete letto queste righe e vi siete rispecchiati maggiormente nella raffigurazione appena descritta, non esitate neanche un attimo a prendere i vostri amici più festaioli e a regalarvi un festival come il Caprices. Avete la nostra parola che non solo non ve ne pentirete ma che, soprattutto, farete di tutto per tornarci. E, come se niente fosse, vi renderete conto di avere di nuovo quel sorriso involontariamente stampato in faccia.